Caramelle ai bambini e banconote agli adulti a urne ancora aperte. A urne chiuse e scrutinate, con quel 52,3% dei voti che gli ha garantito il terzo mandato presidenziale, la promessa di “aprire la porta al secolo della Turchia”. Il solito Recep Tayyep Erdogan, insomma.
Prima, durante e dopo il voto che, pur consacrandolo ancora una volta al vertice, ha messo a nudo tutta l’usura del suo ormai venticinquennale potere. La percentuale ottenuta è più o meno quella delle altre elezioni presidenziali. Questa volta, però, Erdogan è stato costretto al ballottaggio, pur avendo beneficiato di tutti i vantaggi del presidenzialismo forte (compreso un ampio controllo dei media, che in campagna elettorale gli hanno dedicato un tempo Tv dieci volte superiore a quello del rivale) ottenuto con il referendum del 2017.
E per la prima volta l’opposizione, guidata da Kemal Kilicdaroglu, è rimasta compatta fino alla fine in una coalizione di sei partiti.
Sull’altro lato della barricata, Kilicdaroglu, leader del Partito popolare repubblicano, non potrà che rimpiangere l’occasione perduta. La Turchia vive una profonda crisi economica, con un’inflazione che nell’autunno 2022 è arrivata al 60% e un aumento dei prezzi che ha sfiorato l’80%. E il terremoto del febbraio scorso, con oltre 50 mila morti, ha mostrato un desolante panorama di corruzione e incuria nel settore edilizio e di inefficienza nei soccorsi.
In più, il frenetico inurbamento della popolazione, generato anche dalla fuga dalle campagne in cerca di lavoro, favoriva l’opposizione: Istanbul ormai conta poco meno del 20% della popolazione totale della Turchia e il 60% dei turchi vive in 10 città che sono quasi tutte (a partire proprio da Istanbul e dalla capitale Ankara) amministrate da sindaci dell’opposizione.
Un’ottima base di partenza per spodestare Erdogan, che invece ha conservato con successo il voto delle periferie e delle campagne, dove tra l’altro il tema dell’islam (Erdogan ha chiuso la campagna per il primo turno recitando il Corano a Santa Sofia, da lui ritrasformata in moschea, e quella del secondo turno visitando la tomba di Abu Ayyub al-Ansari, uno dei compagni di Maometto) e della fedeltà alle tradizioni (all’annuncio della vittoria Erdogan ha attaccato le teorie LGBT) è più sentito che nelle grandi città.
Che cosa potrà accadere, dunque, nella terza era Erdogan che si apre in queste ore? Pochi Paesi, come la Turchia, hanno un collegamento così diretto tra politica interna e politica estera. È difficile, diciamo pure impossibile in tempi brevi, che il Reis rinunci alla politica economica superespansionistica che ha perseguito negli ultimi anni, sfidando le leggi dell’inflazione e il malcontento della classe media, e a cui ha sacrificato cinque governatori della Banca Centrale in otto anni.
Per mantenerla, però, la Turchia ha bisogno di continue iniezioni di denaro fresco e oggi nel mondo c’è una sola vera cassaforte: le monarchie del Golfo Persico. Inevitabile quindi che Erdogan continui la politica di distensione con Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, Paesi che gli hanno fornito importante ossigeno finanziario.
Stesso discorso per quanto riguarda la Russia. Nel settore energetico, la Turchia dipende al 90% dalle importazioni, la Russia ha costruito la centrale nucleare di Akkuyu (è stato inaugurato nello scorso aprile il primo reattore, a pieno regime l’impianto fornirà energia elettrica a 15 milioni di persone), Mosca ha siglato con Ankara diversi accordi sul gas e ha sospeso, per favorire la rielezione di Erdogan, crediti per 10 miliardi di dollari.
L’amicizia con la Russia resterà e verrà riequilibrata, come abbiamo già visto succedere, dall’intervento su altri due fronti. Uno è l’Ucraina: la Turchia vende armi a Kiev e, dal punto di vista politico, si pone come Paese mediatore e garante del famoso “accordo sul grano”, che consente le esportazioni di cereali dall’Ucraina ma intanto favorisce la stessa Turchia, che incamera parte di quelle esportazioni.
Un equilibrismo, peraltro, che consente a Erdogan di non mettersi in urto totale con l’Unione Europea e gli Usa. L’altro è il Caucaso meridionale, dove la Turchia appoggia l’Azerbaigian musulmano contro l’Armenia, cristiana e tradizionale alleata di Mosca, esercitando così una certa pressione su Mosca.
Dovremo insomma aspettarci il solito spericolato Erdogan, capace di cambiare posizione e alleanza in base alle esigenze interne, siano esse politiche, economiche e di costruzione del consenso. Kilicdaroglu, il suo avversario, prometteva di migliorare i rapporti con l’Unione Europea e, nello stesso tempo, di espellere tutti i profughi siriani, circa 3,6 milioni di persone, violando così l’accordo siglato dalla Turchia proprio con la UE nel 2016. Una strizzata d’occhio al nazionalismo e alla xenofobia dell’ultradestra che non ha pagato al momento del voto.
Erdogan ha rapporti altamente conflittuali con la Grecia (e di conseguenza con la Francia) e con Cipro, che sono Paesi UE, ed è arrivato persino a parlare di intervento armato. Però ha lasciato una porta aperta in occasione del terremoto, quando la Grecia e altri Paesi europei hanno partecipato alle operazioni di soccorso.
Anche in questi casi c’entra l’energia, sotto forma di giacimenti marini di gas. E l’energia, oltre alla geopolitica, spiega bene l’intervento turco in Libia, fortemente voluto da Erdogan, che nell’autunno scorso ha fruttato un importante accordo sulle forniture di gas.
Insomma, come sempre Erdogan è pronto a cambiare tutto tranne se stesso. Continuerà a essere il “cavallo pazzo” della politica internazionale, ad alternare conflitti e improvvise rappacificazioni, minacce e promesse, spregiudicato e imprevedibile com’è sempre stato. Finora gli ha detto bene e i turchi gli fanno ancora credito. Ora altri cinque anni di camminata sul filo. Per lui e per chi, da Putin a Biden alla Von der Leyen, dovrà averci a che fare.