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Brexit: 7 cose che potrebbero accadere se il Regno Unito uscirà dall’Unione Europea

I guadagni non compenserebbero le perdite. La London School of Economics prevede che l’Inghilterra potrebbe arrivare a lasciare per strada fino al 10% del PIL. Ed ecco perché la Brexit pare non convenire a nessuno.
A cura di Michele Azzu
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In queste ore, e fino a domani, si svolge a Bruxelles un vertice decisivo per il futuro del Regno Unito nell’Unione Europea. Si discuterà delle nuove richieste fatte dal primo ministro inglese David Cameron. Richieste che, se non accettate potranno influire pesantemente sul referendum che si terrà entro il prossimo anno nel Regno Unito – una data precisa non c’è ancora – per chiedere ai cittadini britannici se vorranno rimanere o uscire dall’Unione Europea (il referendum è noto con l’acronimo “Brexit”, da Britain più Exit).

Lo scenario sembra, almeno a noi europei, lontano, forse impossibile. Ma nel Regno Unito se ne discute già da oltre un anno, e gli analisti hanno già esaminato gli scenari economici che potrebbero derivare da una Brexit. Già, perché la maggior parte degli analisti concorda nel dire che una eventuale uscita dall’UE comporterebbe gravi danni all’economia del paese. Di che si tratta?

  1. I DANNI ALL’ECONOMIA. Sono diversi gli analisti e le previsioni che indicano come una uscita del Regno Unito dall’Unione Europea comporterebbe gravi perdite economiche per il paese. In realtà, l’ipotesi è riportata spesso anche dai sostenitori favorevoli alla Brexit, che però ridimensionano il volume di queste perdite e sostengono si tratti di un prezzo da pagare per i vantaggi che potrebbero arrivare in seguito. L’analisi del Centre for Economic Performance della prestigiosa London School of Economics calcola che nello scenario più pessimistico il Regno Unito potrebbe affrontare perdite tra il 6.3% e il 9.5% del PIL. Lo scenario più roseo, invece, nel caso in cui dopo l’uscita rimanga un accordo di libero scambio commerciale con l’UE, le perdite ammonterebbero al 2.2% del PIL. Un dato che è in linea con le previsioni dell’istituto statistico nazionale.
  2. LE ESPORTAZIONI. Il 45% delle esportazioni dal Regno Unito vanno all’Unione Europea. Dopo gli USA, infatti, il primo paese in cui l’UK ha esportato nel 2015 è stata la Germania, seguita da Olanda, Francia e Irlanda. Queste esportazioni rischiano di venire seriamente danneggiate da una possibile Brexit, perché il Regno Unito potrebbe trovarsi a dover pagare nuovamente i dazi doganali, più ulteriori costi burocratici. Persino il diplomatico inglese Iain Mansfield, che ha vinto il “premio Brexit” dell’Istituto per gli Affari Economici britannico, ha dovuto affermare che: “Gli anni immediatamente successivi all’uscita verosimilmente presenteranno un certo grado di incertezza del mercato”. Insomma, se il Regno Unito uscisse dall’UE dovrebbe rinegoziare da capo nuovi accordi per le esportazioni. Che potrebbero essere peggiori delle condizioni attuali. Richiederebbero tempo. E nella fase di mezzo i danni economici sarebbero incalcolabili.
  3. LE AZIENDE HANNO PAURA. Secondo il recente sondaggio della Camera di Commercio britannica, condotto su 3.500 imprese, il 57% crede che rimanere membri dell’UE – con condizioni rinegoziate rispetto ad ora – sarebbe la situazione ideale per il business britannico. Diversi big dell’industria hanno infatti preso in considerazione l’ipotesi di ridurre il proprio business nel Regno Unito nell’eventualità di Brexit. Fra questi: Nestlé, Hyundai, Ford.
  4. I POSTI DI LAVORO. Non è possibile stabilire l’impatto dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea sull’occupazione. C’è chi, come il leader del partito Lib Dem inglese Nick Clegg, ha paventato l’ipotesi di 3 milioni di posti di lavoro a rischio. Più concretamente, i settori a rischio in caso di Brexit sono quello automobilistico e dei servizi finanziari. L’industria dell’auto occupa attualmente circa 700mila persone in UK, mentre nei servizi finanziari le banche estere danno lavoro a 160mila persone.
  5. STRETTA ALL’IMMIGRAZIONE. Nei mesi scorsi il governo britannico di David Cameron, per mezzo del suo ministro degli interni Theresa May, ha affermato di voler introdurre limitazioni all’ingresso nel paese di immigrati europei in cerca di lavoro. Come questo potrebbe accadere ancora non si sa, e di questo si discute in queste ore a Bruxelles. Ma fra poche settimane entra in vigore il nuovo regime di reddito imposto agli immigrati non-europei residenti nel Regno Unito: chi guadagna meno di 35.000 sterline l’anno (circa 45.000 euro), dopo 5 anni dovrà lasciare il paese. Questa nuova legge, introdotta dal governo Cameron nel 2012, ha suscitato grande clamore in UK. Per quanto riguarda gli immigrati europei, però, anche in caso di Brexit non sarà facile porre paletti di questo genere, perché l’UE potrebbe introdurre le stesse limitazioni agli immigrati britannici che lavorano nell’Unione. Una ricerca effettuata dal quotidiano inglese The Guardian nel 2015 riporta che 30.000 cittadini britannici usufruiscono di sussidi di disoccupazione in altri paesi dell’UE.
  6. IL BUDGET EUROPEO. Il Regno Unito paga 350 milioni di sterline a settimana in tasse per il budget dell’Unione Europea. I sostenitori del ‘SI’ all’uscita dall’UE sostengono che questi soldi potrebbero venire spesi in altro: dalle scuole alla sanità. Ma il problema è che se il Regno Unito vorrà ancora accedere al mercato europeo, questi soldi in qualche maniera andranno pagati, anche una volta usciti dall’UE e stabiliti nuovi accordi commerciali. E la cifra, una volta fuori, potrebbe anche essere maggiore.
  7. REGOLAMENTI. Ancora, a sostegno dell’uscita dall’Unione Europea c’è il fatto che il Regno Unito, una volta fuori, potrebbe cancellare ogni regolamento europeo stabilito finora. In materie come la sanità, mercato del lavoro, istruzione, sicurezza, industria. Il che comporterebbe un grande risparmio dai costi di queste regolamentazioni (al momento non è possibile quantificare tale risparmio). Il problema, ancora una volta, è che se il Regno Unito desidera continuare a fare affari con l’UE, anche dopo una possibile Brexit, buona parte di questi regolamenti europei dovranno rimanere. Inoltre, l’UK è un paese già fortemente liberalizzato in ogni settore, dopo le recenti riforme del governo di Cameron.

L’impressione, insomma, è che gli eventuali benefici economici derivanti da una Brexit siano troppo pochi e poco certi per permettere una valutazione ottimistica di questo scenario. Mentre le perdite sarebbero, quasi certamente, ingenti. Pari a quelle della crisi finanziaria del 2007. E uscire dall’UE non significherebbe poter smettere di fare affari con l’Unione. Ma farlo da “fuori” significherebbe mettersi in condizioni di grave debolezza, politica ed economica.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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