Attentato Nassiriya, la strage che si doveva evitare: sapevamo anche il colore del camion bomba
Sono passati 15 anni da quella tragica mattina del 12 novembre: alle 10:40, le 08:40 in Italia, due terroristi a bordo di un’autocisterna carica di esplosivo attaccarono la base Maestrale a Nassiriya, in Iraq. Il quartier generale dei carabinieri era una delle due sedi dell’operazione Antica Babilonia, la missione di pace italiana avviata il 15 luglio 2003 con la partecipazione di tremila uomini. Il bilancio fu devastante: 19 italiani morti, tra cui dodici carabinieri. Rimasero uccisi due civili, il regista Stefano Rolla che si trovava a Nassiriya per girare un documentario, e Marco Beci, un cooperante internazionale. Nell'attentato persero la vita anche 9 iracheni. Oltre ai morti bisogna contare anche i feriti – una ventina tra militari e civili – che porteranno per sempre le cicatrici di quel terribile giorno. L’Italia pagava così il suo tributo di sangue alla guerra voluta da George W. Bush per spodestare il dittatore iracheno Saddam Hussein.
La base Maestrale, soprannominata Animal House, andò completamente distrutta. Crollò gran parte dell’edificio principale, mentre fu gravemente danneggiata una seconda palazzina dove aveva sede il comando. Sul luogo dell’esplosione si aprì un enorme cratere. L’allora ministro della Difesa, Antonio Martino, accorso sul posto disse: “Quel cratere è il nostro Ground Zero”, in riferimento agli attentati di New York di due anni prima. Quella mattina si consumò “il più grave attacco alle truppe italiane dalla fine della seconda guerra mondiale”.
Ai funerali di Stato e al lutto nazionale seguì il complicato iter giudiziario per scoprire se fosse stato fatto tutto il possibile per prevenire la strage terroristica. La vicenda processuale, che dalla magistratura militare penale è finita nei tribunali civili, non si è ancora conclusa. A distanza di 15 anni, però, almeno una verità è stata scritta nero su bianco, ed è clamorosa: il generale Bruno Stano, comandante del contingente italiano in Iraq, sottovalutò gli avvertimenti dell'intelligence sui rischi di un attentato e non prese tutte le misure necessarie ad evitare la strage.
La strage di Nassiriya che dovevamo evitare
Nei vari gradi di giudizio è emerso che la strage alla base Maestrale poteva e doveva essere evitata, o quantomeno, gli effetti devastanti dell’esplosione potevano essere contenuti. I giudici della Corte di Cassazione, prima sezione penale, in due sentenze (del 2011 e del 2013) hanno infatti stabilito che il comando fosse stato informato dai servizi segreti dell'imminenza di un attentato almeno due settimane prima, il 23 ottobre. Nei rapporti dell'intelligence militare – l’ultimo del 5 novembre – si parlava di terroristi siriani e yemeniti giunti a Nassiriya per compiere la strage e addirittura veniva indicato il tipo di camion – di fabbricazione russa con cabina di colore più scuro – che avrebbero impiegato. La scelta dei terroristi di compiere una strage contro le truppe italiane, inoltre, era dovuta proprio alla particolare vulnerabilità della base come dimostrato dalle dichiarazioni di Said Mahmoud Abdelaziz Haraz, la "mente" dietro l'attentato suicida.
I magistrati della Corte d’Appello di Roma, nella sentenza del febbraio 2017, hanno confermato tutte le conclusioni dei loro colleghi della Cassazione. I giudici hanno evidenziato anche altri elementi che contribuirono alla strage. Tra questi, la posizione del deposito di munizioni che, dopo l’esplosione del camion bomba, moltiplicò l’effetto mortale sui nostri soldati. “Sullo specifico punto – si legge nella sentenza – anche un estraneo alle arti militari dovrà rilevare l’irresponsabile assurdità della collocazione così esposta di un deposito di munizioni”.
Un’altra cosa è certa: le protezioni poste alla base Maestrale erano insufficienti. Mancavano le serpentine con blocchi di cemento – che avrebbe rallentato un veicolo – né erano state prese tutte le altre misure di difesa passiva (dossi artificiali, bande chiodate, muro di calcestruzzo, ecc.). Insomma, i giudici hanno stabilito che, dopo tutti gli avvertimenti dell'intelligence sul rischio di un attentato, “c'era possibilità di predisporre utilmente qualche maggior contrasto anche temporaneo” per evitare la strage. Stano, subentrato l'8 ottobre 2003 al comando del Italian Joint Task Force Iraq, era a conoscenza dei rischi. Con la direttiva Frago del 22 ottobre, il generale di brigata aveva predisposto il progressivo trasferimento di alcune basi del contingente verso aree più sicure. Una questione a lungo discussa, infatti, è stata l'opportunità di stabilire la base in centro a Nassiriya con l'obiettivo di ribadire la natura prevalentemente umanitaria della missione. La corte ha deliberato che non era vero che la direttiva politica imponesse per forza la permanenza di una posizione di rischio tra la gente del posto. C’era dunque l’evidenza di innalzare, nel frattempo e nel possibile, le difese passive.
I processi ai comandanti militari italiani in Iraq
Dopo l’attentato finirono sotto processo i vertici militari italiani in Iraq: il generale dell’esercito Bruno Stano, al comando del contingente il giorno della strage, il suo predecessore, generale Vincenzo Lops, e il colonnello dei carabinieri Georg Di Pauli, comandante della base Maestrale. La procura militare di Roma contestò ai tre imputati la “omissione aggravata di provvedimenti per la difesa militare”, un reato previsto dal codice penale militare di guerra. Dopo una serie di istanze e rinvii, il reato venne derubricato in quello di “distruzione colposa di opere militari”, previsto per il tempo di pace.
In sede penale tutti e tre gli imputati verranno assolti. Lops uscirà presto di scena con un’assoluzione piena. Di Pauli, processato con rito ordinario dalla giustizia militare, è stato assolto in primo grado e in appello. La Cassazione ha annullato la sentenza di proscioglimento ma, a febbraio 2017, la Corte d’Appello di Roma rigetta le richieste delle parti civili negando perciò alcuna responsabilità per Di Pauli, nel frattempo promosso al grado di generale. I reduci e i parenti delle vittime di Nassiriya non si sono dati per vinti e i loro avvocati hanno chiesto alla Cassazione di annullare il verdetto. Finora, quindi, l'unico ad essere stato condannato è stato il generale Stano, che dovrà risarcire i danni ai feriti e ai familiari dei caduti nell'attentato. Secondo quanto si legge nella sentenza del 2017, “risulta manifesta la stretta dipendenza tra il reato commesso e la morte e le lesioni riportate dalle vittime”. Il ministero della Difesa ha annunciato di voler fare ricorso contro la condanna a Stano, passato intanto al grado di generale di Corpo d'armata. “La decisione di impugnare tale pronuncia è mossa dall'esigenza di salvaguardare l’operato dei Comandanti delle Forze armate impegnate in operazioni – si legge in una nota del ministero – e, in particolare, la loro serenità di giudizio e la giusta motivazione nell'agire per l’assolvimento delle missioni militari tese a garantire la sicurezza dei cittadini all'estero e in patria”. La parola fine alla travagliata vicenda giudiziaria legata all'attentato di Nassiriya non è ancora stata scritta. E forse questa, per i sopravvissuti e i familiari delle vittime, è la ferita più grave da rimarginare.