Accusare i curdi, quando succede qualcosa di brutto, è quasi un riflesso automatico per le autorità della Turchia. D’altra parte, quasi cinquant’anni di violenze reciproche, con migliaia di vittime per atti di terrorismo degli uni e feroci repressioni militari dell’altra, spiegano abbondantemente quella specie di rito.
Negli ultimi sei anni, peraltro, la Turchia di Recep Tayyep Erdogan ha lanciato sei operazioni militari contro i curdi nel Nord della Siria, l’ultima nel maggio di quest’anno. E i bombardamenti sui villaggi e sulle postazioni dei curdi sono pressoché continui. Nessuno quindi si è stupito quando Erdogan, a minuti dall’esplosione che ha ucciso sei persone in una famosa via dello shopping nel centro di Istanbul, ha detto “c’è odore di terrorismo” e Suleiman Soylu, ministro dell’Interno, ha prontamente affermato che “secondo le nostre conclusioni, l’organizzazione terroristica Pkk (il Partito dei lavoratori del Kurdistan, n.d.r.) è responsabile dell’attacco… riteniamo che l’ordine sia partito da Kobane (città a maggioranza curda, appunto, nel Nord della Siria, n.d.r.)”.
In questo caso, però, certe affermazioni sono più credibili perché, a complicare le cose nella già crudele guerra che da decenni oppone la Turchia ai curdi, che sono circa 35 milioni in totale e che formano anche circa il 20% della popolazione turca, si inserisce quello che potremmo chiamare “fattore Ucraina”.
Com’è noto, dopo l’inizio dell’invasione russa, due Paesi di lunga tradizione neutrale, Svezia e Finlandia, hanno chiesto di entrare nell’Alleanza Atlantica. La Nato raccoglie ormai 30 Paesi (l’ultimo a entrare è stata la Macedonia del Nord nel 2020) e per accoglierne di nuovi serve il consenso unanime dei Paesi già membri.
Svezia e Finlandia hanno trovato sulla loro strada proprio la Turchia, che ha messo sotto accusa la politica di accoglienza che i due Paesi nordici da decenni praticano nei confronti degli esuli curdi. In poche parole: Erdogan ha chiesto la cessazione di ogni forma di sostegno alle organizzazioni curde, primo fra tutte il Pkk, e l’estradizione formale di 73 curdi che vivono in Svezia o in Finlandia e che Ankara considera terroristi. Altrimenti, dice a Helsinki e Stoccolma, niente Nato.
Spaventati dal militarismo russo, i Governi di Svezia e Finlandia hanno chinato la testa e hanno messo nero su bianco l’intesa in un summit svoltosi a Madrid in giugno. Speravano forse che le pressioni diplomatiche dei Paesi che si oppongono alla Russia ammorbidissero la posizione turca, che si arrivasse a un compromesso meno impegnativo. E invece no, Erdogan tiene duro.
Così Svezia e Finlandia non sanno più che fare: nella Nato non riescono a entrare, d’altra parte estradare decine di curdi che hanno accolto in passato come esiliati politici perseguitati darebbe un durissimo colpo all’immagine molto perbene di custodi dei diritti umani che hanno sempre coltivato.
In tutto questo è chiaro che i curdi sono preoccupati. Svezia e Finlandia sembrano più intente a trovare una scappatoia diplomatica ma anche piuttosto inclini ad abbandonarli. Non a caso nei giorni scorsi il nuovo premier svedese Ulf Kristersson era a colloquio con Erdogan, non a caso è stata la Turchia la prima meta estera da quando ha assunto la carica un mese fa.
Il cosiddetto “popolo senza patria” perderebbe un appoggio importante e con ogni probabilità si avvierebbe lungo la strada già percorsa dai palestinesi, coccolati per decenni dai fronti democratici dell’Est e dell’Ovest e poi, cambiato il vento della politica internazionali, quasi del tutto abbandonati.
L’attentato di ieri a Istanbul potrebbe essere un primo avvertimento lanciato dai curdi nelle più diverse direzioni. La zona in cui è stata fatta esplodere la bomba, Via Istiklal, è sempre molto frequentata anche dagli stranieri ed è solo un caso che le sei vittime accertate siano tutte turche. Se questa ipotesi è quella giusta, tenendo in conto la capacità operativa delle formazioni armate curde, l’attentato di ieri è stato il primo di una serie che potrebbe diventare lunga.