Assiste 175 famiglie di rifugiati, ora ha bisogno di aiuto: l’Odissea tra Siria e Turchia di Anas Mustafa
Il grido di aiuto di Anas Al Mustafa arriva da lontano, ma non per questo deve lasciarci indifferenti. Arriva dalle terre perennemente infiammate da conflitti che segnano il confine tra la Siria e la Turchia, dove i comandi di polizia locale trattano le persone alla stregua di rifiuti e la vita vale così poco che bisogna aggrapparcisi con tutte le forze per non farsela strappare via.
Così fa Anas Al Mustafa, che da più di un anno implora aiuto ai rappresentanti internazionali dei diritti dell'uomo e ai Paesi occidentali con ogni mezzo a sua disposizione. Il suo caso, a cui hanno collaborato una quantità di avvocati per i diritti umani italiani e stranieri e sul quale si è espressa anche Amnesty International, è stato recentemente portato dinanzi alla Corte di Strasburgo e al Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria delle Nazioni Unite.
Scappare e ricostruire
Nato e cresciuto ad Aleppo, Anas ha conosciuto gli anni peggiori della guerra civile che ha dilaniato la Siria, per poi fuggirne dopo aver perso tutti i suoi più cari amici, nel 2016. “Avevo perso tutto”, racconta. “La mia casa, il mio lavoro, i miei cari. Finalmente nel 2016 ho ottenuto l’asilo in Turchia e ho potuto iniziare una nuova vita nella città di Konya. Non ero mai stato tanto felice”.
A Konya, nel centro-sud della Turchia, Anas inizia una nuova vita, senza però dimenticare quella che si è appena lasciato alle spalle. Il suo modo per ricordare è aiutare concretamente chi, proprio come lui, scappa da una guerra che sembra non avere fine, lasciandosi dietro macerie, morte e sogni infranti. Fonda l’associazione umanitaria A Friend Indeed, che grazie al suo duro lavoro e a generose sovvenzioni europee e statunitensi fornisce assistenza a 175 famiglie di rifugiati siriani composte principalmente da vedove di guerra e da più di 400 bambini: persone in stato di necessità che, grazie ad Anas, possono mangiare, coprirsi e permettersi un paio di scarpe senza buchi.
Il lavoro di Anas attira l’attenzione dei media italiani, che raccontano l’edificante storia di un uomo che, da rifugiato di guerra in Turchia, fornisce assistenza ad altri rifugiati che scappano dalla Siria. A Friend Indeed collabora, tra le altre, con l’organizzazione italiana Crescere Insieme e Mani di Pace.
“Tra il 2016 e il 2017 la Turchia aveva adottato una politica di accoglienza nei confronti di chi scappava dalla guerra in Siria. Tuttavia, persone come Anas non erano viste di buon occhio dalle autorità locali, perché in qualche modo tramite il loro lavoro puntavano il dito su tutto quello che il governo non faceva o non faceva abbastanza bene”, spiega Kurtuluş La, l’avvocato turco per i diritti umani che ha portato il caso di Anas davanti al Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria delle Nazioni Unite.
In stato di arresto: quando "il tuo unico diritto è firmare queste carte"
Il 15 maggio 2020, mentre tutta l’Europa è chiusa in casa a causa del primo lockdown, a Konya, in Turchia, la polizia locale bussa alla porta di Anas. “Dobbiamo farle qualche domanda in merito alla sua cittadinanza turca, venga con noi”, gli intimano. Con questo primo ordine, inizia l’incubo di Anas.
“Mi hanno portato alla stazione di polizia, mi hanno detto di lasciargli il mio telefono e il mio portafoglio e mi hanno arrestato. Quando gli ho chiesto perché mi stessero mettendo in prigione, quale fosse il mio crimine, non mi hanno risposto”.
In prigione, Anas incontra altri cinque rifugiati siriani. Ognuno di loro racconta la stessa storia: la polizia che bussa alla porta, la richiesta di chiarimenti sulla cittadinanza turca, infine l’arresto. “Il giorno dopo una guardia è entrata nella mia cella, intimandomi di firmare dei documenti. Gli ho chiesto cosa contenessero e mi ha risposto che contenevano il consenso a essere deportato in Siria. Mi sono rifiutato di firmarli, ho chiesto insistentemente perché volevano deportarmi, quale fosse il mio crimine, ma non mi hanno risposto”. Anas si rifiuta di firmare le carte e chiede insistentemente di parlare con un rappresentante dell’UNHCR e con un avvocato. Entrambi i diritti gli vengono negati.
“L’unico diritto che hai è quello di firmare questi documenti”, gli rispondono. “Non ho commesso nessun crimine, non voglio firmare il consenso alla mia deportazione”, insiste Anas. “Allora ti lasciamo qui. Pensaci bene, perché ormai nessuno ti può aiutare”, gli risponde il poliziotto prima di andarsene.
"Qual è il mio crimine?"
Anas resta nella prigione di Konya per cinque giorni, senza la possibilità di vedere un avvocato e senza essere informato sul perché si trovi in stato di arresto. Il 20 maggio, la polizia torna a trovarlo per costringerlo a firmare gli stessi documenti di cinque giorni prima. Stavolta, però, urlano. “Se non firmi ti portiamo nella prigione di Gaziantep e dovrai restarci per sei mesi o un anno come punizione per non aver obbedito”, lo minacciano. “Qual è il mio crimine?” chiede ancora Anas, esasperato. “Non preoccuparti, ne troveremo uno”, gli risponde il poliziotto.
“In quel momento mi sono sentito sprofondare. Ero solo, nessuno poteva aiutarmi, nessuno poteva sentire la mia voce. Mi sembrava che il mondo mi crollasse addosso, continuavo a chiedere di parlare con un avvocato ma non mi è mai stato concesso. Non mi hanno nemmeno fornito di un interprete dal siriano al turco, visto che non parlo quella lingua e non capivo di cosa fossi accusato. Alla fine mi hanno costretto a firmare”.
"Ci hanno buttati fuori dall'auto come se fossimo spazzatura"
Il 22 maggio, alle cinque di mattina, un’auto civile scorta Anas e gli altri cinque rifugiati siriani che erano con lui in prigione al confine con la Siria. “Ci hanno buttato fuori dalla macchina come se fossimo sacchetti dell'immondizia. Li ho pregati di darmi almeno un documento che attestasse la deportazione, ma hanno rifiutato. Ho anche chiesto un referto medico che provasse il fatto che ero stato in prigione per otto giorni, visto che sapevo che in Siria sarei stato molto probabilmente arrestato di nuovo. Hanno rifiutato anche quello. Mi hanno detto: ‘Ormai non sei più in Turchia, non sei un nostro problema. Arrangiati’. Poi se ne sono andati”.
Nei giorni seguenti Anas viene portato in un centro di isolamento nella città di Idlib, una delle ultime roccaforti dell’Isis in Siria, animata da un perenne stato di guerriglia. La nuova prigione è, a detta di Anas, un luogo “molto sporco”, da cui riesce a scappare dopo una settimana. Terrorizzato, riesce a mettersi in contatto con alcuni giornalisti occidentali e il suo caso viene segnalato ad Amnesty International che si esprime in suo favore.
L'avvocato pagato che non si è mai presentato in prigione
“Ho poi scoperto che diversi miei amici in Turchia erano venuti a cercarmi in prigione, ma la polizia aveva loro impedito di vedermi. Ho anche saputo che insieme avevano assunto un avvocato per difendermi. Lo avevano pagato diecimila lire turche, l’equivalente di millecinquecento euro. Questo avvocato però non venne mai a trovarmi. I miei amici mi hanno inviato la ricevuta dei soldi pagati, soldi che quell’uomo ha intascato senza lavorare un solo giorno per me. I miei amici gli hanno allora chiesto di restituire il denaro, ma non lo ha mai fatto”.
Sopravvivere
Per mesi, Anas sopravvive in Siria grazie a un amico che lo tiene nascosto in casa. In quel periodo, contatta una quantità di avvocati e legali per i diritti umani in Turchia e in Italia. Grazie al loro sostegno gratuito, il caso di Anas viene portato alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo. Ogni giorno, o quasi, Anas parla con i suoi legali in Italia e con alcuni giornalisti. Non sopporta l’attesa, vuole scappare, vuole tornare ad avere una vita normale, senza doversi sempre nascondere. Ma i casi come quello di Anas richiedono tempo, le procedure delle corti internazionali sono lente e lui non resiste. Decide di scappare.
Attraversare il confine a piedi
“Quando la situazione è diventata insostenibile, ho deciso di rischiare la mia vita e provare a tornare in Turchia”. Anas cammina per trenta ore consecutive, senza cibo né acqua, passando le montagne e le foreste che separano la Siria dalla Turchia. Due Paesi che lo rifiutano in misura uguale, due Paesi per i quali la sua vita non vale nulla. La sua vita, però, è tutto quello che gli resta insieme alla determinazione a restarci aggrappato con ogni forza e con ogni mezzo, fino a consumarsi le scarpe e a perdere la voce a forza di ripetere sempre la stessa domanda: “Qual è il mio crimine?”.
Durante il viaggio a piedi, Anas resta in contatto via cellulare con il suo avvocato in Italia Chiara Modica Donà Dalle Rose, a cui invia costantemente la sua posizione. Riesce a passare il confine senza farsi uccidere e come prima cosa corre a riprendersi i suoi documenti, messi in salvo dai suoi amici. “Senza quelli sarebbe stato impossibile difendermi legalmente”.
La paura costante
La polizia turca è attualmente a conoscenza del fatto che Anas è tornato a Konya. Il 41enne teme che in qualsiasi momento possano arrestarlo di nuovo e riportarlo in Siria, dove rischia ugualmente il carcere. “Il mio desiderio più grande è vivere una vita serena, possibilmente qui a Konya, dove ci sono tutti i miei affetti e dove il mio lavoro è di aiuto a tante persone. Voglio ricominciare la mia attività di volontariato per le famiglie rifugiate che ancora mi chiamano e mi chiedono di non abbandonarle”.
“Non sono un criminale”, continua Anas. “Anche se sono cresciuto in Siria durante la guerra, non ho mai tenuto in mano un’arma. Sono solo un volontario che aiuta chi scappa da un Paese distrutto, passando il confine senza soldi e senza vestiti come ho fatto anch'io nel 2016. Nonostante tutto quello che mi è successo, credo ancora nella giustizia e nella solidarietà”, conclude.
Le accuse a carico di Anas Al Mustafa
Attualmente Anas è accusato di avere oltrepassato illegalmente il confine tra la Siria e la Turchia. Il suo legale è Kurtuluş La, avvocato turco per i diritti umani che difende, oltre ad Anas, scrittori, artisti, giornalisti e volontari per i diritti umani presso il Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria delle Nazioni Unite. “Anas è sospettato di mettere in pericolo la sicurezza nazionale – spiega il legale – ma non esiste un solo argomento a sostegno di questa tesi”.
Secondo La, la deportazione di Anas in Siria è stata una violazione dei diritti fondamentali dell’uomo sanciti dall’ICCPR (International Covenant on Civil and Political Rights and European Convention on Human Rights, n.d.r.) e per questo il suo caso può e deve interessare i Paesi membri dell'Unione Europea. Durante questo anno e mezzo, Anas ha provato diverse volte a chiedere asilo all'estero, anche se il suo desiderio più grande rimane quello di poter restare a Konya per aiutare le famiglie che contano su di lui.