Anno 2012, ritorno al Medioevo: Hamza Kashgari e l’oscurantismo saudita
Hamza Kashgari è giornalista, poeta e scrittore saudita di ventitré anni che – come molti suoi coetanei – affida ai bit e alla rete la propria idea di mondo, i pensieri, le frustrazioni, le storie, i versi: riflessioni dolorose e solitarie che, talvolta, per il semplice fatto di esistere, rappresentano un intollerabile attacco al sistema sociale cui si riferiscono. Nei primi giorni di febbraio, Kashgari ha commesso un crimine: ha raccontato a Twitter e al mondo quel che pensa di dio e, ora, una piccola parte di quel mondo chiede la sua testa. Letteralmente. Ogni società – arcaica o moderna che sia – ha i suoi pensieri proibiti, idee di cui potendo, si punirebbe anche la muta formulazione, figuriamoci la palese esternazione. Anche nella società italiana non tutte le idee hanno pari dignità di esistenza; ce ne sono alcune che risultano scomode, indigeste, pericolose o addirittura impronunciabili. E poi ci sono paesi in cui la coraggiosa rottura di un tabù non determina semplici crocifissioni mediatiche, ma conduce dritti dritti al patibolo, quello vero. Tra i paesi che risultano più avvezzi alla pratica del reiterato assassinio di stato c'è proprio l'Arabia Saudita (terra natia di Hamza Kashgari) che, attualmente, occupa il sesto posto al mondo per numero di esecuzioni capitali.
La vicenda
"Nel tuo compleanno, dirò che ho amato il ribelle che è in te, che sei sempre stato una fonte di ispirazione per me, e che non amo l’alone di divinità intorno a te. Non pregherò per te. Nel tuo compleanno, non mi inchinerò davanti a te. Non ti bacerò la mano. Piuttosto, te la stringerò, come si fa fra eguali e ti sorriderò mentre tu mi sorridi. Ti parlerò come a un amico, niente di più. Ho amato alcuni tuoi aspetti, odiato altri, e altri non li ho capiti".
Queste le parole di Kashgari su Allah. Parole così rivoluzionarie da avere il potere di scatenare ogni possibile reazione: migliaia gli estremisti che ne invocano la morte, migliaia le persone che ne apprezzano le parole, e il coraggio. Ma il governo saudita – che ha forma di monarchia assoluta in cui re Abdullah è, al contempo, la massima autorità politica e religiosa – sembra aver già deciso da che parte stare. Del resto la Shari'a – la legge di dio su cui si fonda il sistema legislativo saudita – parla chiaro: assassinare un mussulmano, commettere adulterio, bestemmiare Allah o abbandonare volontariamente la religione islamica sono reati punibili con la morte. Di tanto in tanto, però, la legge di dio ammette deroghe ed eccezioni. Accade soprattutto quando si decide – seppure in mancanza di un esplicito parere dell'Altissimo – che ammazzare un omosessuale o una strega (esatto, una strega) è espressione della "volontà di dio". Il caso del giovane scrittore saudita, però, non rappresenta un'eccezione, secondo la legge di dio egli è a tutti gli effetti un apostata e, pertanto, può essere condannato a morte.
Pochissimi giorni dopo aver diffuso il suo pensiero via Twitter, Kashgari ha dovuto scontrarsi con la feroce reazione di una parte del suo popolo (ben 26.000 persone hanno aderito al gruppo Facebook chiamato: "Il popolo saudita chiede l'esecuzione di Hamza Kashgari") e del governo di Riyād (il capo dell'informazione ha già annunciato che a Kashgari sarà vietato di scrivere per qualunque giornale). La situazione è degenerata così velocemente che il giornalista è stato costretto a fuggire in Nuova Zelanda onde evitare persecuzioni. Purtroppo, la corsa del giovane saudita si è fermata in Malesia, dove il governo locale non ha mostrato la minima solidarietà al giornalista e, per bocca del Ministro dell'Interno Hishammuddin Hussein, ha fatto sapere che non permetterà che la Malesia "sia vista come uno Stato sicuro per terroristi e persone ricercate nei loro paesi di origine, né come un paese di transito". Con queste esatte parole, la nazione asiatica ha accompagnato il consenso all'estradizione del giornalista; estradizione condannata da Amnesty International e da moltissime organizzazioni umanitarie che rilevano nell'atteggiamento dell'Arabia Saudita una palese, pesante violazione degli articoli 18 e 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo; la suddetta violazione fa di Hamza Kashgari – ipso facto – un "prigioniero di coscienza". Inoltre, lo stesso giorno dell'estrazione, il tribunale di Kuala Lumpur aveva stabilito che Kashgari sarebbe dovuto restare in Malesia fino all’apertura del processo, ma pare che la decisione sia arrivata quando il giovane era già stato imbarcato sul volo diretto a Riyād. A quel punto, non c'è stato più niente da fare.
Lo scorso 12 febbraio, Kashgari è stato rimpatriato e incarcerato e ora lo attende, nella migliore delle ipotesi, la fustigazione o, nella peggiore, la morte per decapitazione. A nulla sono servite le scuse del giovane, a nulla è servita la cancellazione dei tweet; una parte dell'Arabia Saudita vuole la sua testa e non è detto che non sarà accontentata. Del resto, anche lo sceicco Nasser Al-Omar, autorità religiosa, ha fatto sapere che non c'è altra possibilità se non quella dell'esecuzione per il crimine di cui Kashgari si è macchiato, e ha reso nota la sua opinione utilizzando lo stesso mezzo di cui si è servito il giovane giornalista: la rete. In un video di 30 minuti su Youtube, lo sceicco – lacrimante – ha chiesto scusa ad Allah e ai suoi ministri per "le azioni degli idioti che sono tra noi", ha mostrato vergogna e disprezzo per come Kashgari ha pubblicamente offeso l'Altissimo e ha chiesto per lui il massimo della pena.
I perché
"Ho paura, non so più dove andare. Non mi immaginavo una reazione del genere, neanche lontanamente. Sapevo di essere guardato ma la consideravo una forma di guerra psicologica e non volevo dar troppo importanza alla cosa perché non volevo che pensassero che stavo perdendo la battaglia. Vedo le mie azioni come parte di un processo verso la libertà. Quello che stavo chiedendo era di esercitare il mio diritto al più basico dei diritti umani: la libertà di espressione e di pensiero. Penso di essere il capro espiatorio di un conflitto molto più grande. Ci sono un sacco di persone come me in Arabia Saudita che combattono per i loro diritti".
Con questa dichiarazione, rilasciata al Daily Beast, Kashagari tenta di indagare le ragioni che potrebbero aver spinto la monarchia saudita a reagire in maniera così repentina e feroce. Da diverso tempo, ormai, le autorità politiche e religiose sembrano decise a ostacolare con forza il processo di laicizzazione dello stato che pure aveva fatto qualche passo avanti nell'ultimo ventennio. Pochi sembrano esserne a conoscenza, pochissimi ne parlano, eppure la brezza rivoluzionaria della primavera araba ha cominciato a soffiare anche dalle parti di Riyād, ed è perciò probabile che la monarchia saudita voglia far sentire la propria forza, e scoraggiare così qualunque desiderio di sommossa. Oggetto degli afflati rivoluzionari dei giovani sauditi, infatti, è proprio la monarchia assoluta, colpevole di aver impedito lo sviluppo del paese in senso democratico. In Arabia Saudita non esistono leggi diverse dalla Shari'a, non esiste una Costituzione, non esistono elezioni, non esistono tasse, le libertà individuali sono limitatissime e le donne sono considerate cittadini di serie b, minorenni vita natural durante alle quali viene impedito persino di uscire senza il beneplacito del loro tutore. A tal proposito, può essere utile ricordare che un celebre proverbio saudita recita: "Una ragazza non possiede altro che il suo velo e la sua tomba", e che una delle prime proteste in linea con il vento di cambiamento che spirava dal Magreb fu l'atto di disobbedienza che alcune donne saudite misero in scena nel giugno 2011 mettendosi alla guida delle automobili (attività espressamente vietata a persone di sesso femminile). Oltre ai giovani e alle donne, però, a guidare la neonata contestazione saudita ci sono gli sciiti, da sempre oggetto di discriminazione per via del fatto che la monarchia è guidata da una rigida interpretazione dell'Islam in senso wahabita, il che rende gli sciiti degli eretici, degli apostati, degli idolatri.
Certo, in uno stato in cui la possibilità di governo non è minimamente legata al consenso del popolo il potere della contestazione è molto ridotto, a meno che non assuma le proporzioni di una vera e propria rivoluzione, ed è esattamente questo che re Abdullah vuole evitare. Inizialmente, il monarca ha tentato di ingraziarsi le donne facendo loro una serie di concessioni, come il diritto allo studio universitario e il diritto al voto per le prossime elezioni municipali del 2015, ma tutto questo non è servito a fermare il desiderio di libertà che serpeggia tra la gente. E a poco vale il tentativo di descrivere le proteste come una macchinazione iraniana tesa indebolire la monarchia saudita, perché la verità è che molti – alla stregua di Hamza Kashgari – sono stanchi di vivere in un clima oscurantista, antidemocratico, totalitario e chiedono di essere considerati pari tra pari. Tutto questo, chiaramente, non fa che peggiorare la posizione dello scrittore ventitreenne che rischia di diventare sia il simbolo della degenerazione (agli occhi degli estremisti) che quello della liberazione (agli occhi dei contestatori). La probabile conseguenza di una simile elezione potrebbe consistere nella decisione di infliggere a Kashgari una punizione esemplare, nella speranza che colpirne uno possa educarne cento.