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Anche ai narcos piacciono i selfie, ma per loro non è solo moda

I selfie sono la rappresentazione visiva della conversazione digitale. Descrivono un mondo ideale e accessibile a chiunque possieda uno smart-phone. I narcos messicani, grazie ad Instagram, li hanno trasformati in uno strumento di comunicazione di massa con cui dominano il territorio virtuale.
A cura di Marcello Ravveduto
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Nel film “Le belve” di Oliver Stone il web è il vero protagonista del narcotraffico. I contatti tra Usa e Messico passano attraverso la rete. I protagonisti dialogano tramite mail e video-chat. Il rapimento della donna dei due narcos americani è un vero e proprio reality: monitorata 24 ore su 24 da un webcam e mostrata ai suoi uomini come un ostaggio del “Grande Fratello” criminale. L’apice si raggiunge con l’esecuzione in streaming del presunto traditore che, dopo innumerevoli torture (tra cui l’estrazione di un bulbo oculare), viene finito tra urla di dolore e copiosi versamenti di sangue.

È solo pura fiction cinematografica? Ebbene no. I cartelli sono ormai attenti osservatori e utilizzatori del web. Nel 2012 hanno sequestrato 36 esperti, tra hacker e analisti informatici, per costringerli a lavorare su piattaforme digitali o a realizzare vere e proprie incursioni contro i blogger che denunciano quotidianamente le violenze perpetrate dai narcos.

La tecnologia, come spesso accade a chi si arricchisce improvvisamente provenendo da un contesto di povertà materiale assoluta, è un totem mitico con cui si manifesta la ricchezza e il potere. Un lusso irrinunciabile che è parte integrante del narco-glam.

Lo smart-phone è il fulcro della supremazia digitale dei cartelli messicani; un dominio del territorio virtuale che ha le caratteristiche di un’asfissiante campagna pubblicitaria in cui si mostrano le attività e i successi dell’holding criminale. Secondo Antoine Nouvet, un ricercatore canadese esperto di empowerment digitale, i narcos, grazie alle app dei telefoni mobili di ultima generazione, hanno trasformato se stessi in un’agenzia di comunicazione postando, sui principali social network, fotografie che li ritraggono con pistole, ak-47, auto di lusso, donne sensuali, pacchi di dollari e vittime pronte ad essere eliminate.

Facebook è sicuramente uno strumento privilegiato, ma Instagram è il vero pilastro di questa trasformazione che ha diffuso a livello planetario la pratica del “selfie”.

Dom Hofmann (uno dei leader del selfie movement) ritiene che questa attività non dipenda dalla vanità, ma sia piuttosto un modo di mostrare se stessi mentre si sta facendo qualcosa o si è in qualche luogo memorabile: una maniera personale di condivisione esperienziale. Fa notare, poi, che quando si pubblica un primo piano la rete dei contatti si eccita spingendo gli amici più stretti a scrivere in privato per organizzare un incontro: il volto digitalizzato stimola un sentimento di riconoscimento e prossimità che unifica dimensione virtuale e vita reale.

Il processo mentale è strettamente legato alla selezione visiva del cervello: all’interno di un’immagine la scansione cerebrale mette in evidenza soprattutto i primi piani e i volti (il tag fotografico dei social network imita, infatti, questa distinzione cognitiva). Da questo principio è scaturita una strategia di comunicazione che ha coinvolto in prima battuta le celebrità dello star system propagandosi in maniera virale grazie alle possibilità di replicazione offerte dallo smart-phone in continua connessione. Naturalmente la smania di visibilità, in mani poco esperte, rischia di diventare l’imitazione volgare dell’intimità svelata a cui si attribuisce l’audacia di un divismo pret a porter.

Il selfie rientra nelle pratiche di livellamento sociale provocate dallo sharing online: tutti vogliono entrare a far parte della scena pubblica che definisce un standard comune di appartenenza stabilito dalle regole del networked individualism.

Uno stereotipo globalizzato di identificazione personale (in un mondo sempre più spersonalizzato) determinato dall’uso massificato degli smart-phone.

Insomma il selfie non è narcisismo 2.0 ma un esercizio individuale, alla moda, generato dalle reti sociali che hanno riconfigurato i parametri della comunicazione visiva: l’autoscatto è un’interazione, un dialogo con la catena degli “I like” e dei commenti; il suo valore va stimato in termini di reattività. Per questo gli antropologi francesi considerano il selfie l’espressione digitale di un’innovativa “estetica della conversazione”.

Gli autoritratti costruiscono un mondo parallelo in cui tutto è accessibile e divertente. Basta un click, associando il proprio volto ad un oggetto, ad una persona o a un contesto, per dimostrare che quella esperienza è concretamente possibile per chiunque abbia posato il suo sguardo sulla fotografia sparata nel web.

La retorica del selfie ridefinisce, quindi, la propria immagine pubblica perché lo scatto, e la scelta del contorno, serve a ostentare la propria identità: essere come si appare per stabilire un contatto con la rete a partire da ciò che si vede.

La stessa logica preside anche i selfie dei narcos messicani. Basta fare un salto su Instagram e scrivere #narco, #cartel, #cartelreport #zetas, #sinaloa e tutti gli altri hashtag riconducibili al mondo dei cartelli messicani per essere proiettati in un immaginario criminale senza filtri.

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I narcos sono (e vogliono essere) come si mostrano: armati, violenti, lussuriosi, ricchi, potenti e soprattutto spietati.

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Sul profilo “Narcovideos” sono stati postati due video di decapitazioni ma l’utente, nel giro di 24 ore, ha modificato la privacy del profilo, rendendolo privato, per cui l’immagine sottostante non è più visibile al pubblico dei navigatori.

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A questo punto la domanda è: siamo di fronte a una strategia di comunicazione pianificata o anche i narcos sono in preda alla moda dei selfie? Se consideriamo che alcuni profili espliciti hanno migliaia di seguaci con foto corredate da centinaia di “Like” e commenti di sostegno all’azione criminale e se aggiungiamo che circa il 30% degli studenti universitari messicani ha indicato le figure dei narcos e dei sicari come modello da seguire per ottenere denaro e potere, un dato diventa lampante: il crimine organizzato è un’alternativa attraente, o spesso la sola alternativa, per molti giovani con meno di 29 anni, che rappresentano il 46% dei 52 milioni di messicani che vivono in povertà.

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Ciò significa che la visibilità mediatica dei narcotrafficanti “pubblicizza”, volente o nolente, la strada da imboccare per sollevarsi dalla miseria. Anzi la continua attenzione dei media sulla capacità dei Cartelli di programmare vere e proprie campagne pubblicitarie per il reclutamento di giovani soldati non fa altro che amplificare l’audience del messaggio criminale e allargare la coorte degli spettatori suggestionabili.

In una canzone dei Los Tucanes de Tijuana questa realtà appare per quella che è: un campesino sfruttato e umiliato dal latifondista si ribella scegliendo l’avventura del narcotraffico per ottenere la libertà e benessere.

https://www.youtube.com/watch?v=hL1u108GTU4

I narcos, a loro volta, hanno schiavizzato i contadini per la coltivazione della preziosissima yerba, ma questa è un’altra storia.

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