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Afghanistan, torna di moda la lapidazione

La criminale consuetudine viene riproposta da un governo che riceve dall’alleato statunitense la patente democratica. Il presidente uscente Karzai e diversi dei candidati alle presidenziali del prossimo aprile fanno a gara per conquistare il benestare del tradizionalismo tribale e fondamentalista.
A cura di Enrico Campofreda
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Sulla vita delle donne, sottoposta alle pietre d’una nuova lapidazione per adulterio, Hamid Karzai lavora per una successione nel segno dell’oscurantismo. E’ di queste ore la notizia che il ministero della Giustizia afghano prende in esame una bozza di riforma del codice penale che prevede la reitroduzione della lapidazione (come nel quadriennio talebano) allargando la condanna capitale anche all’uomo reo. Il direttore dell’ufficio legislativo ha già difeso la proposta trovandola, a suo dire, consona ai dettami della Shari’a. Le associazioni umanitarie sono insorte lanciando un appello alle massime cariche afghane per fermare la misura criminale. Peccato che molte di queste autorità (i vicepresidenti della Repubblica Islamica Khalili e Fahim sono noti signori della guerra vicini alle posizioni fondamentaliste più intransigenti), mentre Hamid Karzai sta da tempo preparando un ricambio politico avvicinando i settori più retrivi delle etnìe afghane. Una recente operazione l’ha visto protagonista del patto col presidente statunitense Obama, denominato “Bilateral security agreement”, che è stato irritualmente sottoposto al vaglio della Loya Jirga.

Ogni sponda diventa buona per gli interessi personali del presidente uscente, in barba al suo presunto ruolo democratico di cui parla esclusivamente la propaganda occidentale. Una delle manipolazioni più dolorose per le donne delle 34 province afghane è proprio la patente di reale rappresentatività dei bisogni della popolazione, offerta a diverse figure femminili introdotte in Parlamento sull’onda della “democratizzazione”. Sul tema la denuncia di Rawa è tranciante. Le deputate: Amina Afzali, Hassan Bano Ghazanfar, Massouda Jalal, Rawa Barakzai, Noorzia Atmar, Fouzia Kofi e altre colleghe presenti nella Wolesi Jirga “sono legate ai brutali signori della guerra” e si fanno portavoce di istanze reazionarie e antifemminili subdolamente sostenute nelle sedi istituzionali. Oltre all’abominio della punizione per lapidazione, è in corso una meticolosa disarticolazione dei diritti femminili presenti nella Carta Costituzionale. Anche la buona legge che difende l’incolumità femminile, esistente ma mai applicata, potrebbe sparire definitivamente.

In occasione della settimana contro la violenza sulle donne la nostra Camera dei Deputati ospita un convegno dal titolo “Afghanistan 2014, anno di svolta: bilancio e prospettive per le donne afghane” (giovedì 28 novembre, Palazzo di Montecitorio, ore 14:30-18:30). In quest’assise, dov’è attesa anche il ministro degli Esteri italiano Emma Bonino, sarà presente una delle contestatissime parlamentari afghane citate: Shukria Barakzai, di cui le attiviste di Rawa offrono le seguenti informazioni. Nel 2005 Barakzai e il marito Abdul Ghafar Daw provarono l’ingresso in politica. Lei riuscì nell’intento, lui non venne eletto. Il consorte si piazzò brillantemente nell’affarismo nazionale, entrando nel Gotha dirigente della Kabul Bank che ha controllato per anni gran parte del traffico finanziario interno col benestare della comunità internazionale. L’istituto di credito, però, risultava la cassa di riferimento della mafia locale e nel 2010 venne travolto da un crack finanziario con la perdita di centinaia di milioni di dollari. Daw ne fu coinvolto insieme ad altri dirigenti, uno è il fratello di Karzai e l’inchiesta raggiunse lo stesso vice presidente della Repubblica Fahim. Fra gli affari personali, procurati a Daw dalle coperture politiche di famiglia, nel 2006 c’era stata una sorta di monopolio del rifornimento di carburante per dieci aeroporti afghani.

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