Le vicende dell’Afghanistan non sono mai ordinarie e lineari. Così il destino ha voluto che a distanza di poche ore si succedessero il tremendo attentato suicida nella moschea sciita Sayed Abad di Kunduz, con più di 80 morti e centinaia di feriti, e il primo incontro, a Doha (Qatar), tra delegazioni ufficiali americane e talebane dopo il tormentato ritiro Usa dal Paese.
Ma si tratta proprio solo di destino? La strage contro gli sciiti di Kunduz è stata rivendicata dallo Stato Islamico-Khorasan che, com’era stato facile prevedere, rifiuta il ritorno al potere dei talebani e fa di tutto per destabilizzare la situazione e impedire loro di ottenere il pieno controllo dell’Afghanistan. Il tutto rientra nello scontro più ampio che scuote l’arcipelago islamista, quello tra l'emirato (che, come quello dei talebani, ambisce al dominio di uno specifico territorio) e il califfato (che, come pensava lo Stato islamico, dovrebbe invece radunare tutti i musulmani, a prescindere dalla geografia), se vogliamo anche tra il Qatar e l’Arabia Saudita. Ma è un inutile esercizio di dietrologia pensare che i jihadisti dello SI-Khorasan abbiano scelto, per colpire, la vigilia degli incontri di Doha anche per mandare al mondo il messaggio che il potere dei talebani è lungi dall’essere saldo o intoccabile?
In Qatar i funzionari del Dipartimento di Stato e i consiglieri del mullah Haibatullah Akundzada, leader supremo dl movimento, si raduneranno intorno a un tavolo ingombro di argomenti. In primo luogo, l’evacuazione di alcune decine di cittadini americani, e di migliaia di detentori di green card e di afghani che hanno lavorato per le truppe straniere, che sono rimasti volontariamente in Afghanistan oppure non sono riusciti a imbarcarsi sui voli finora partiti da Kabul. La questione è più complicata di quanto sembri. I talebani non vogliono lasciar partire tutti gli afghani che vorrebbero andarsene. E gli americani diffidano di voli carichi di persone malamente identificate, visto che non c’è alcun loro ufficiale nell’aeroporto di Kabul a controllare identità e permessi. Altrettanto complessa, ma a rovescio, è la questione delle Ong e delle diverse organizzazioni umanitarie che potrebbero aiutare la popolazione afghana. I talebani sono restii a concedere un facile accesso, perché temono infiltrazioni spionistiche o, comunque, di occhi interessati a valutare molto più che i bisogni della gente.
Infine ci sono le questioni di principio, come l’atteggiamento del Governo talebano verso le donne, già investite da provvedimenti che limitano la loro libertà e mortificano i loro diritti. Ma la questione delle questioni, quella che ci riporta alla strage di Kunduz e al suo curioso tempismo, è quella del terrorismo. Le lunghe trattative che l’amministrazione Trump, attraverso il segretario di Stato Mike Pompeo, intavolò con il vertice talebano, allora rappresentato dal mullah Baradar, avevano un punto focale: il ritiro delle truppe Usa (e per conseguenza di tutte quelle degli altri Paesi stranieri) poteva avvenire solo in cambio dell’impegno formale, da parte dei talebani, a non praticare più il terrorismo e a non ospitare più gruppi terroristici intenzionati a colpire l’Occidente.
Le promesse, in politica, valgono quel che valgono. I talebani si erano impegnati anche a trattare con il Governo di Ashraf Ghani e ad affrontare regolari elezioni, e abbiamo visto quel che è successo. Però ci sono alcune considerazioni da fare. I mullah che ora comandano a Kabul, senza essere ufficialmente riconosciuti da alcuno, sanno di essere sotto osservazione. Gli Usa possono colpire in Afghanistan da una qualunque delle molte basi di cui dispongono in Medio Oriente. La Russia ha fatto chiaramente sapere che stroncherà qualunque tentativo di destabilizzare i Paesi dell’Asia Centrale (Tagikistan e Uzbekistan) dove dispone di truppe e dove coltiva interessi di lunghissima data. La Cina vuole essere sicura che i nuovi talebani non faranno come quelli vecchi, che si immischiavano nelle vicende dei musulmani uiguri dello Xi Jiang. Il Pakistan osserva, ambiguo come sempre: quasi tutti i comandanti dello Stato Islamico-Khorasan guarda caso sono pakistani. Certo, a Kabul possono contare sul benevolo Qatar, ma è davvero troppo poco per tentare manovre spericolate.
In più, il terrorismo islamista c’è già e colpisce anche loro, come abbiamo visto all’aeroporto di Kabul, a Kunduz e in una miriade di piccoli episodi che in Afghanistan pesano, anche se non arrivano sulle prime pagine dei media occidentali. Ed è un terrorismo strettamente collegato a quello che agisce da molti anni in Medio Oriente e che si è accanito, con le sue ramificazioni, ben oltre i confini della regione, per esempio in molti Paesi d’Europa.
Questi mullah, a giudicare da come si sono mossi finora, non sono degli stupidi bestioni come ogni tanto ci piace dipingerli. E i molti tentativi di stabilire relazioni internazionali (compresa la richiesta, un po’ grottesca, di intervenire all’ultima Assemblea generale dell’Onu) dimostra che hanno ben presente il rischio dell’isolamento totale. Abbiamo quindi da un lato la concreta minaccia terroristica dello SI-Khorasan e dall’altro il desiderio talebano di guadagnare tempo e considerazione. Unendo i puntini, non ci stupiremmo se questi colloqui di Doha sancissero una specie di patto tra Usa e talebani, in cui i primi si impegnano a non scrollare il già traballante regime dei mullah mentre i talebani garantiscono una lotta senza quartiere contro i jihadisti che minacciano sia loro sia gli interessi occidentali, anche nel vicino Medio Oriente. Fantapolitica? Forse. Come lo era un anno fa pensare di rivedere i talebani nel palazzo presidenziale di Kabul.