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Conflitto Israele-Palestina e in Medio Oriente

A Gaza primo intervento a cuore aperto da inizio guerra, il medico: “Costretti a scegliere chi far vivere”

“La situazione è semplicemente catastrofica, ma abbiamo deciso di ricominciare ad operare con i pochi mezzi a disposizione”, il primario dell’European Hospital parla a Fanpage.it.
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Operazione a cuore aperto nell'European Hospital di Gaza
Operazione a cuore aperto nell'European Hospital di Gaza
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L’86% delle strutture sanitarie a Gaza sono state distrutte, dichiarava l’Unicef ad aprile, oggi a distanza di quasi un anno dall’inizio dell’offensiva israeliana a Gaza gli ospedali rimasti aperti, in condizioni di operare nuovamente, sono solo tre: il Nasser Hospital, l’European  Hospital, e l’ospedale dei martiri di al Aqsa. Tutti al sud della Striscia, al nord non c’è più niente, come racconta Saher Abu Ghali, primario dell’European Hospital di Khan Yunis. È lui ad aver effettuato, insieme all’equipe di cardiochirurghi di Gaza, la prima operazione a cuore aperto dentro la Striscia dopo il sette ottobre.

Il racconto del primario di Gaza a Fanpage.it

Durante il primo mese di bombardamenti l’European Hospital, unico ospedale di Gaza ad essere specializzato in cardiochirurgia, si era trasformato in clinica di emergenza. Poi è stato ordinato a medici e ai pazienti ricoverati di evacuare l’edificio, solo nei primi giorni di settembre l’ospedale è tornato a funzionare.

“Quando ci hanno detto che potevamo rientrare nell’European Hospital, io e il mio team di medici, abbiamo deciso che volevamo ricominciare sin da subito, con i pochi mezzi a disposizione, a fare interventi cardiochirurgici. Quando siamo arrivati dentro l’ospedale ci siamo resi conto che non sarebbe stato facile, l’ospedale è stato depredato, tanti strumenti sono stati distrutti, o scomparsi. Abbiamo dovuto ristrutturare il dipartimento, e abbiamo iniziato ad operare solo i casi urgenti”, racconta a Fanpage.it il dottor Ghali.

La prima operazione a cuore aperto è stata fatta il 17 settembre a un uomo di 66 anni con la diagnosi di una cardiopatia ischemica (infarto). L'operazione prevedeva l'innesto di un'arteria coronaria ed è durata circa 5 ore, dalle 9.00 del mattino alle 14.00 del pomeriggio. “Ora il paziente sta bene”, spiega il primario.

L'intervento su un bimbo di 4 mesi

“L’operazione che ricordo meglio, però, è la prima a torace aperto che ho fatto all’ospedale Nasser dopo l’inizio della guerra. Si trattava di un bimbo di quattro mesi affetto da una massa tumorale interna alla gabbia toracica che gli comprimeva il cuore” – continua il medico – “la diagnosi gli fu fatta due mesi fa da dei cardiochirurghi pediatrici di Gaza e il piccolo, dopo una lunga attesa, aveva ottenuto un visto per curarsi fuori dalla Striscia, ma intanto la sua situazione era peggiorata. Non potendo aspettare che venisse riaperto il valico, i colleghi del Nasser Hospital mi hanno chiesto se potevo operarlo urgentemente io. Sono corso lì e abbiamo fatto un intervento salvavita e grazie a Dio è sopravvissuto. Con le poche attrezzature che avevamo a disposizione siamo riusciti ad aprire il torace e rimuovere il tumore cardiaco che comprimeva il cuore e la vena cava inferiore e superiore. È stato un intervento molto complicato che ho fatto da solo con l’aiuto di un chirurgo pediatrico. Dopo l’operazione siamo riusciti a trovargli un posto in terapia intensiva e adesso è tornato a casa”.

La seconda ed ultima – finora – operazione a cuore aperto effettuata all’European Hospital è stata fatta a una signora di 64 anni con una massa tumorale intra cardiaca, nell’atrio sinistro del cuore. “La storia di questa signora è molto particolare – racconta ancora il dottor Ghali – soffriva di perdita di coscienza improvvisa e non sapeva quale fosse la causa. Gli ho chiesto un ecocardiogramma e siamo riusciti a vedere una massa tumorale insolita all’interno del cuore, vicino alla valvola mitrale. Così abbiamo fatto subito un intervento d’emergenza: prima il bypass cardiopolmonare, che permette di operare una volta fermato il cuore, poi siamo arrivati all’atrio sinistro e abbiamo estratto la massa tumorale. La paziente adesso si trova in terapia intensiva, sta bene, probabilmente oggi o domani la manderemo a casa. Faremo un’altra operazione domenica prossima, ma dopo non sappiamo più come potremmo andare avanti perché mancano gli ossigenatori”.

Ossigenatori per le operazioni a cuore aperto
Ossigenatori per le operazioni a cuore aperto

Mancano le attrezzature negli ospedali

Per svolgere operazioni a cuore aperto come quelle dei due pazienti sessantenni è necessario l’ossigenatore, un dispositivo per la circolazione extracorporea che consente ai chirurghi di operare sul cuore fermo. Si tratta di dispositivi usa e getta, che già prima del sette ottobre venivano ordinati dal Ministero della Sanità di Gaza per farli arrivare dentro la Striscia. “Noi di solito consumiamo circa trenta ossigenatori al mese, quelli che ci sono rimasti adesso sono solo tre. Da subito abbiamo chiesto di farci arrivare altri ossigenatori, ma dall’inizio della guerra non ne è arrivato manco uno. Così siamo costretti a scegliere i casi da curare, curiamo solo i più urgenti, gli altri li facciamo aspettare e spesso li vediamo morire” continua.

“La lista di attesa dei pazienti che hanno bisogno di operazioni cardiochirurgiche è lunghissima, e se da un lato i pazienti sono quintuplicati, dato che dall’inizio della guerra non abbiamo mai operato e il reparto di cardiochirurgia è rimasto chiuso, dall’altro gli strumenti a nostra disposizione sono meno della metà rispetto a quello di cui avremmo bisogno. In più siamo carenti di personale, tanti medici sono stati uccisi, tanti sono stati imprigionati, altri sono scomparsi”.

Intanto a Gaza non si fermano le bombe. Una cosa è certa: anche se e quando si fermerà il massacro israeliano, adesso allargatosi anche in Libano, quello che resta di Gaza è una popolazione in ginocchio in un territorio lunare.

"La Gaza che conoscevamo non esiste più, io vivo in una tenda"

“Non ci sono più strade, si impiega un’ora per passare da un ospedale all’altro, la Gaza che conoscevamo non esiste più, io fatico persino a riconoscere le strade. La situazione è semplicemente catastrofica. Per quanto riguarda medici e paramedici viviamo una situazione molto precaria, io personalmente vivo in una tenda, che non mi protegge né dal sole né dalla pioggia, da mesi viviamo una vita primitiva, dove per bere dobbiamo camminare 3,4 km e per riscaldarci dobbiamo accendere il fuoco" continua il medico. “Lo stipendio che riceviamo è di 800 shekel, circa 200 euro, praticamente niente per una vita che adesso è diventata molto più cara. I valichi sono chiusi quindi ogni cosa costa 20 volte di più. Una sigaretta a Gaza costa 130 shekel, 50 euro”.

Mancano medicine, medici costretti a scegliere chi curare

Il sistema sanitario è ormai collassato da tempo, ci sono solo tre ospedali in funzione e sono tutti nella parte sud della Striscia, l’unico al nord è l’Al Shifa Hospital, di cui è stato riaperto solo il dipartimento di emergenza.

“Negli ospedali non abbiamo medicine, che dopo un intervento al cuore sono importanti quanto l’intervento stesso. I pochi ospedali rimasti in piedi lavorano a meno della metà del loro potenziale, ma con una quantità di pazienti mai vista. Siamo costretti a scegliere chi lasciar morire chi far vivere. Per quanto mi riguarda mi sento stremato, devo operare con pochissimi mezzi, devo farlo bene e salvare la vita delle persone, contemporaneamente devo pensare alla mia famiglia quando torno nella mia tenda e assicurare ai miei figli cibo e acqua".

Saher Abu Ghali si ferma un attimo, dal telefono con cui parla a Fanpage.it si sente il rumore dei droni: “Psicologicamente e fisicamente devo sopportare uno stress assurdo”, riprende, “tutti abbiamo paura, nessuno si sente sicuro, né nella propria tende né a lavoro. Mentre sto operando, in qualsiasi momento, potrebbero bombardare l’ospedale”.

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