“Siamo in un conflitto nel quale la continuazione della vita quotidiana, il mantenimento delle garanzie di diritto, il rifiuto di mostrare la propria paura, peraltro pienamente legittima, formano una componente decisiva dell’arsenale morale della società. […] Sono le democrazie ad aver vinto le guerre, come quelle contro le grandi tirannie del ventesimo secolo, in cui le dittature hanno perso la partita. La libertà non è una debolezza, anzi è proprio la libertà a sostenere il coraggio dei popoli. […] Le misure eccezionali di cui si parla sono conformi ai nostri princìpi? Per battersi ci vuole un ideale. Cominciare con l’intaccarlo significa indebolirsi già dall’inizio”.
L’editoriale di Liberation, all’indomani del discorso in Parlamento con il quale Francois Hollande chiedeva modifiche alla Costituzione per ampliare i poteri suoi, del Governo e dell’esercito, e la proroga dello stato di emergenza, centra perfettamente il punto e restituisce la portata della partita in corso.
Nicolas Krameyer, responsabile dei programmi sulla libertà d’espressione di Amnesty International, aggiunge ai nostri microfoni: "Lo stato di emergenza è un insieme di misure che derogano alle libertà fondamentali e ci si chiede di trasferire i poteri civili all’esercito e ai militari. Ma non siamo assolutamente a questo punto. Il fatto è che la protezione dei diritti non è una debolezza nella lotta al terrorismo, ma è ciò che permette di rendere legittima agli occhi di tutti la nostra lotta, è ciò che evita che si creino le condizioni in cui prospera l’integralismo".
La riflessione non è banale (e può essere estesa all'Italia e agli altri Paesi coinvolti, almeno secondo una visione prospettica), proprio perché investe le fondamenta, l'essenza stessa, delle democrazie occidentali. E chiama in causa la capacità di distinguere “sicurezza” da controllo, “saldezza sociale” da pacificazione, prevenzione dei crimini da sorveglianza.
Il ricatto nei confronti dei cittadini è semplice: cedere diritti in cambio di sicurezza, rinunciare a libertà individuali per garantirsi protezione.
La tesi di Hollande è chiara: "Lo Stato di emergenza restringerà temporaneamente le nostre libertà, ma le misure d'emergenza serviranno per ristabilire le nostre libertà in futuro". Le obiezioni non sono però solo su quel "temporaneamente". Perché non può bastare la "provvisorietà" a rendere tale compromesso accettabile.
“Dobbiamo essere disposti a cedere una parte delle nostre libertà”, dice il procuratore antiterrorismo Roberti. E per cosa? Supponiamo che Hollande, Roberti e gli amanti, più o meno pentiti, delle politiche di Bush e Blair abbiano ragione: possiamo essere ragionevolmente certi che alla cessione di diritti e libertà corrisponda maggiore sicurezza individuale? Quali evidenze ci sono a sostegno di tale tesi? Poche, pochissime, forse nessuna se si pensa a come si è arrivati alla situazione attuale.
Noi, molto sommessamente, pensiamo che quella della sicurezza totale sia una pura illusione. E che se cediamo su valori essenziali, come la libertà individuale, i diritti civili, la privacy, le garanzie processuali e via discorrendo, erodiamo alla radice la nostra società.
Della questione, certamente fra le più complesse, si è tornato a discutere dopo l’11 settembre 2001, quando la resistenza venne meno a seguito dello shock provocato dall’attacco al cuore dell’America. Nei mesi e negli anni immediatamente successivi all’attacco, gli Stati Uniti si sono resi protagonisti di continue e reiterate “sospensioni dei diritti umani” (basti solo considerare "la mancata risposta del Governo Usa alle accuse mosse dal Washington Post circa la cessione di sospetti terroristi ad altri paesi quali l’Uzbekistan, il Pakistan, l’Egitto, la Giordania, l’Arabia Saudita e il Marocco dove i diritti umani non sono rispettati" e dove effettivamente i deportati sono stati sottoposti a tortura e maltrattamenti) e di un attacco al cuore di concetti come libertà e privacy. Attacco attuato con un vero e proprio blitz, fatto sfruttando l’ondata emozionale dei fatti di New York: basti solo pensare al fatto che il controverso Patriot Act è stato approvato in pochissimi giorni, "tanto che si è addirittura dubitato che i parlamentari che si sono espressi a favore della legge avessero tutti realmente letto il testo".
Provvedimenti del genere, presi in un contesto di grande emozione, hanno anche un altro effetto: quello di spostare progressivamente il confine fra normalità ed eccezionalità, svuotando di senso il concetto di emergenza, deroga, eccezione. Lentamente ci abituiamo a tutto, assimilando giorno dopo giorno, un pezzo alla volta, ciò che ci sembra intollerabile.
E se invece la “soluzione” fosse quella di ripensare la struttura stessa della nostra società? Nel 2003 usciva un volume “Filosofia del terrore – Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida”, in cui due fra i massimi pensatori del Novecento analizzavano il post 11 settembre e, appunto, il concetto stesso di “terrore”. Giovanna Borradori, che ne ha curato l’edizione, riportava un pensiero di Derrida che risulta particolarmente illuminante:
Bisogna andare oltre il politico, oltre il legale e pensare l’impensabile, perdonare l’imperdonabile e sostituire la tolleranza con il concetto più flessibile e aperto di ospitalità incondizionata, che si apre all’altro senza aspettative, regole o imposizioni. Un compito immane, che però l’Europa, unica realtà realmente secolarizzata, chiusa tra la teologia fondamentalmente cristiana di Bush e quella fondamentalmente islamica di Bin Laden, può e deve osare.
E lo stesso Habermas, pur non condividendo il capovolgimento di prospettiva che chiede Derrida, ricorda che “all’interno del mondo occidentale esiste un consenso su uno zoccolo di concetti e valori che consente una soluzione a ogni conflitto”.
Ecco, rinunciare a questi valori per una trasporto emozionale e per una presunta securizzazione della società sembra un errore enorme.