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A cena nel rifugio indiano delle ragazze sfregiate: “A quattro anni mio padre mi ha sfigurata con l’acido”

A Nuova Delhi, India, ho incontrato Roopa, Anshu, Juli. Tutte e tre sono state sfregiate con l’acido, per anni hanno coperto il loro volto e ora stanno ricominciando a vivere grazie al Sheroes Cafè. L’India detiene un record mondiale di attacchi con l’acido, e spesso le vittime, dopo essere state sfigurate, vengono abbandonate dai familiari. Una donna sfregiata non si sposa, non studia, non lavora. Non riceve assistenza e non ci sono programmi di reintegrazione promossi dal governo, né sostegno economico.
A cura di Elisabetta Rosso
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Anshu, Juli e Roopa si fermano sotto la scritta fiammeggiante Sheroes, a pochi passi dal dehor con il prato sintetico dove sono seduta. Le stavo aspettando. Mi salutano alzando il braccio, poi si avvicinano compatte. “Scusa per il ritardo”, dice Anshu stringendomi decisa la mano. Gli altoparlanti attaccati al soffitto trasmettono Chaleya di Arijit Singh, popstar indiana. Si siedono. Sposto il caffè freddo e il pacchetto di sigarette, sorrido e le ringrazio. Perché quello che faranno nel giro della prossima ora non sarà qualcosa di facile. 

Sono le 17 e siamo sedute in un dehor della periferia di New Delhi, India. L’umidità percepita è del 72%. Fa caldissimo. I ventilatori sul soffitto sbattono veloci le pale e la luce al neon viola trema ogni volta che una mosca si posa e muore, ce ne sono tantissime. Anshu mi guarda in silenzio, poi mi chiede: “Da dove vogliamo partire?”. Dall’inizio, rispondo. “Ti racconto allora chi ero prima di questo allora”, dice Anshu, indicando il suo viso, “sai una volta la mia faccia era come la tua”. Accanto ad Anshu Julie e Roopa accennano un sorriso. Tutte hanno il volto sfregiato dall’acido.

“Credevo che avrei vissuto sempre nel mio villaggio, Bijnor, sarei diventata una sposa, una madre, è quello che mi ripetevano da quando ero bambina, è quello che succede alle ragazze come me”, dice Anshu. “Poi tutto è cambiato quella notte”.

Sono le undici e quarantacinque del 12 febbraio del 2014 quando Anshu sente la pelle del suo viso sciogliersi. È sdraiata nel suo letto, sta dormendo, a un certo punto il volto brucia “ma non come con il fuoco, è diverso”, prova ad aprire gli occhi, sono incollati, non vede, è tutto nero e sente un rumore strano, come se la sua pelle stesse scoppiettando. Poi l’odore di carne bruciata. È un dolore che si percepisce con ogni senso. 

“Pensi di impazzire, non capivo cosa stava succedendo, se ripenso a quel dolore…forse non si può descrivere davvero”. Anshu posa la lattina di coca cola, mi guarda in silenzio con il mento leggermente alzato, non l’ha mai abbassato da quando ci siamo sedute a quel tavolo. Julie accanto a lei annuisce “a me è successo a quattro anni, credo che quel dolore sia il mio primo ricordo”, accenna un sorriso, ma solo a destra, l’altra parte del viso è stata cancellata dall’acido. 

Gli attacchi con l'acido sono un crimine di genere

L’India detiene un record mondiale di attacchi con l’acido, come indicato dai dati del National Crime Record Bureau (NCRB). L’80% delle vittime sono donne. L’attacco con l’acido è un crimine di genere, non è un caso che al tavolo sotto i ventilatori che frullano ci siano solo donne. Donne sfregiate da uomini, spesso rifiutati, che hanno voluto punirle e marchiarle a vita. Perché l’acido è un’arma della cultura del possesso. Se non posso averti allora ti cancello.

“A tirarmi l’acido è stato il mio vicino di casa”, continua Anshu, “si era innamorato di me, aveva 55 anni, io 15, ora ne ho 26, si era dichiarato e l’avevo rifiutato. Così ha deciso di intrufolarsi in casa mia quella notte e sfigurarmi. Era la sua vendetta”. A colpire Juli invece è stato suo padre, “se ne era andato di casa, ero rimasta con mia madre che nel tempo aveva trovato un nuovo compagno, quando mio padre l’ha scoperto è tornato, ha ucciso il compagno e sfigurato me e mia madre con l’acido”. Si intromette di nuovo il silenzio. Ashu continua a guardarmi con il mento leggermente alzato, Juli tortura il braccialetto al suo polso con gli occhi incollati al pavimento. Le pale ruotano e le mosche muoiono attaccate alle luci intermittenti.

Aspetto che Anshu rompa quel silenzio, dà lei il ritmo alla conversazione. “Sai”, dice sistemandosi sulla sedia, “dopo che mi è stato tirato l’acido sono rimasta 12 giorni in un letto di ospedale, non riuscivo a vedere nulla perché l'acido mi aveva bruciato gli occhi e non riuscivo a parlare perché mi era entrato in bocca. Quando sono tornata a casa, due mesi dopo, i miei genitori avevano tolto ogni specchio", sospira, “poi un giorno mentre stavo bevendo ho visto il mio riflesso nel bicchiere di acciaio, ho avuto paura, è caduto dalle mie mani”. Da quel momento Anshu decide di coprirsi il volto. Lo nasconde sempre, anche quando rimane in casa da sola, per non correre il rischio di inciampare in quel volto che non vuole riconoscere. 

FANPAGE.IT | Anshu mentre serve un cliente al chiosco Sheroes Cafè
FANPAGE.IT | Anshu mentre serve un cliente al chiosco Sheroes Cafè

Lo stigma delle sopravvissute a cui viene negata la vita

Molte donne, come le ragazze sedute al tavolo, decidono di non mostrare il volto sfigurato. “Io l’ho coperto per anni”, dice Anshu, “anche io”, sussurra Juli. Oltre alla vergogna c’è lo stigma. Le sopravvissute vengono emarginate progressivamente. “Ho dovuto smettere di studiare, amavo andare a scuola ma quando mi sono presentata ho scoperto che avevano cancellato il mio nome, mi hanno detto ‘Sei senza volto! Spaventerai gli altri ragazzi’. Gli abitanti del villaggio dicevano ai miei genitori: ‘È un peso. Chi la sposerà ora?’”. Silenzio. “Sai ho avuto tendenze suicide. Uscivo raramente di casa. Nei miei momenti peggiori, pensavo: vorrei non essere sopravvissuta a quell’attacco". Le ragazze annuiscono con gli occhi chiusi, tutte sono state torturate da quel pensiero.

“Prima diventi un fantasma, poi un mostro da nascondere”. A parlare è Roopa, 30 anni, è rimasta in silenzio fino a quel momento, ha ancora la testa abbassata mentre pronuncia quelle parole. “Mio padre mi ha allontanato quando sono stata attaccata con l'acido, non avevo una dote così la famiglia del mio promesso sposo ha deciso di sfigurarmi, non mi avrebbe mai sposato con questa faccia, e così è stato”. Molte vittime vengono abbandonate o nascoste. Una donna sfregiata con l’acido non si sposa, non studia, non lavora. Non riceve assistenza, non ci sono programmi di reintegrazione promossi dal governo, né sostegno economico.

Le sopravvissute che vogliono ricostruire le proprie vite scoprono infatti che le risorse sono carenti. Ricevono un sussidio minimo dal governo indiano, 3 lakh di rupie (3.363 euro) come risarcimento morale e 7 (7.869 euro) per gli interventi chirurgici. Il costo medio di una sola operazione è di 4 lakh di rupie. “Io ho dovuto fare sette interventi obbligatori”, dice Roopa, “ma i medici consigliano di farne molti di più”.

FANPAGE.IT | Nagma che chiama le altre ragazze per iniziare il servizio
FANPAGE.IT | Nagma che chiama le altre ragazze per iniziare il servizio

Le leggi sono insufficienti e spesso i colpevoli rimangono impuniti

Il Bengala Occidentale e l'Uttar Pradesh sono gli stati con il più alto numero di attacchi con l'acido. Delhi è in testa alle città metropolitane con la più alta incidenza di attacchi negli ultimi cinque anni. I dati però sono incompleti spesso le sopravvissute non denunciano per paura, vergogna, perché non hanno un sostegno sociale ed economico.

Quando chiedo cosa è successo ai loro aggressori tutte le sopravvissute scuotono la testa. Nessuna risponde. Nel 2021, 153 uomini sono stati accusati. Solo sette sono stati condannati. Nel 2013 il governo indiano ha varato una serie di regole per contrastare il fenomeno, consentendo l'acquisto di acido solo ai maggiorenni e dietro la presentazione di un documento d’identità valido (spesso le regola però non viene rispettata), ha anche riconosciuto gli attacchi di acido come un crimine a se, e stabilito una pena di 10 anni di carcere.

Eppure la sentenza della Corte Suprema non è retroattiva, non è stata inclusa nessuna norma specifica sull’assistenza medica gratuita e sul reinserimento nel mondo del lavoro. Non solo. Nonostante la legge, l’acido è ancora facile da reperire. In India una bottiglia è disponibile in ogni negozio di quartiere a pochi centesimi, si possono anche acquistare online.

FANPAGE.IT | Anshu e Nagma che preparano le borse a fine servizio
FANPAGE.IT | Anshu e Nagma che preparano le borse a fine servizio

La nuova vita con Sheroes Cafè

“Per molte la vita si interrompe e basta, ma per noi non è stato così”, Anshu guarda Juli e Roopa, si stringono le mani e sorridono. Tutte e tre, insieme ad altre ragazze vittime di attacchi con l’acido, si sono incontrate da Sheroes Cafè. “Avevo sentito di questo posto che accoglieva ragazze sfigurate con l’acido e le faceva lavorare in questo bar”, indica il dehor. “La prima volta che sono venuta qui avevo il volto coperto. Ho visto che le altre ragazze mostravano le cicatrici, servivano ai tavoli, facevano i conti, tutte a viso scoperto, e lì ho pensato, forse posso farlo anche io”, dice Juli. Guarda Anshu per qualche secondo, “quando le ho viste, una parte di me si è sentita normale per la priva volta". Sheroes, fondata dalla Chhanv Foundation ha aperto tre locali in India, a Delhi, Agra e Looknow.

È diventato un punto di ritrovo per le sopravvissute, “siamo diventate indipendenti, lavoriamo, studiamo, guadagnamo, viviamo. Perché quella di prima non era vita”, dice Anshu, abbassando per la prima volta il mento, con un movimento quasi impercettibile. Sul soffitto la luce al neon si accende all’improvviso. Fuori è buio e una ragazza, anche lei sfigurata dall’acido, si affaccia dalla porta sul retro, dice qualcosa, ma è hindi, non capisco. Anshu si alza “dobbiamo iniziare ora”, mi stringe la mano. Saluto Juli e Roopa. Anshu si volta, poi si gira di scatto “ah un’ultima cosa”, dice. “Se davvero scriverai questo articolo, per favore fai sapere a tutti che non siamo solo delle vittime. Ti ho detto all’inizio che pensavo che sarei diventata una madre e una moglie. Invece sto combattendo per le donne come me. Capisci?”. Annuisco. “Ci sono ancora tante battaglie da affrontare”.

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