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11 settembre, cosa dicono i nuovi documenti sul coinvolgimento dell’Arabia Saudita negli attentati

I documenti dell’FBI desecretati dal presidente Usa Joe Biden in occasione del ventesimo anniversario della strage raccontano di due uomini sauditi, perfettamente integrati nel corpo diplomatico del Regno, che aiutarono i kamikaze (sauditi) di Al Qaeda (finanziata a lungo dai sauditi) a preparare l’attentato. Tutte cose che sapevamo già, però. E che non bastano per provare che la monarchia saudita fosse coinvolta nella pianificazione degli attentati.
A cura di Fulvio Scaglione
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Joe Biden si era tenuto la pubblicazione del documento redatto dall’Fbi, e reso pubblico sabato scorso, come un colpo di scena e un segno di buona volontà con cui commemorare, da politico, il ventesimo anniversario delle stragi dell’11 settembre 2001. E da politico ha centrato lo scopo: si è mostrato sensibile al dolore delle famiglie delle vittime, che non hanno mai davvero accettato le conclusioni delle inchieste ufficiali e non hanno mai smesso di chiedere maggiore trasparenza, e desideroso quanto loro di conoscere la verità. Ultimo ma forse non ultimo, ha riportato su di sé i riflettori dei media, fino a poco prima concentrati sulle drammatiche immagini in arrivo da Kabul.

Dobbiamo però chiederci se il documento che l’Fbi ha intitolato Encore Investigation Update fornisce notizie inedite o inattese, risponde alle domande più angoscianti, traccia un quadro degli eventi più preciso di quello di cui disponevamo finora. E in questo caso la risposta è, indubbiamente, no. Per capirlo, due parole sulla Encore, un’indagine che fu lanciata parecchi anni dopo le Torri Gemelle proprio per approfondire una questione che sorse quasi subito dopo gli attentati e che in questi vent’anni è stata ampiamente dibattuta: l’Arabia Saudita ebbe parte nell’organizzazione degli attacchi suicidi? E se ne ebbe una, quale? Il documento appena desecretato, è facile immaginarlo esce da uno delle centinaia di faldoni che l’Fbi conserva nei propri forzieri e ha il proprio punto focale nelle attività di alcuni personaggi che vivevano negli Usa e che, in un modo o nell’altro, entrarono in contatto con alcuni membri del commando di kamikaze (19 uomini, 15 dei quali di nazionalità saudita) che realizzò le stragi dell’11 settembre.

Si tratta in sostanza di quattro cittadini sauditi: Nawaf al-Hamzi e Khalid al-Midhar, due degli attentatori; e Omar al-Bayoumi e Fahad al-Thumairy, due cittadini sauditi dagli incerti contorni personali e professionali. Alcune cose sono certe. Al-Hamzi e Al-Midhar (che si schiantarono nell’aereo lanciato contro il Pentagono) non erano mai stati prima negli Usa e non parlavano l’inglese. Al-Bayoumi e al-Thumairy li incontrarono più volte in California, li aiutarono con prestiti e conoscenze (per esempio, quella che permise ai due kamikaze di ottenere patenti di guida americane), fecero in modo di procurar loro le sistemazioni nel New Jersey da cui poi sarebbero partiti per la missione omicida e suicida. Alcune inchieste giornalistiche, ovviamente non confermate dalle autorità, sostengono che ad Al-Bayoumi sia stato a suo tempo sequestrato un computer che conteneva i sistemi di calcolo per determinare la rotta di un aeroplano. Infine: Al-Bayoumi non aveva un mestiere preciso ma la stessa Fbi sostiene che fosse perfettamente introdotto nel consolato saudita di Los Angeles e che in esso si muovesse con grandi poteri. La conclusione logica, fatta già a suo tempo, è che Al-Bayoumi, non figurando nei ranghi del personale diplomatico, fosse in realtà un agente dei servizi segreti sauditi. Interessante era anche Al-Thumairy: lui era in effetti un impiegato del consolato saudita, ma era soprattutto l’imam di una moschea di Culver City nota per le sue posizioni islamiste e anti-occidentali.

Tutto questo è importante ma non è per nulla nuovo. Sia Al-Bayoumi sia Al-Thumairy erano abbondantemente citati nel The 9/11 Commission Report pubblicato il 22 luglio del 2004, redatto dalla Commissione americana d’indagine sugli attentati dell’11 settembre. Al-Bayoumi, per fare un esempio, ricorre in 28 diversi passi del Rapporto ed è citato decine e decine di volte. E Al-Thumairy poco meno. Ed entrambi, sia pure in modi diversi, sono tornati in patria senza danni. Al-Bayoumi, poco prima degli attentati dell’11 settembre, si era trasferito nel Regno Unito per studiare alla Aston University. Su richiesta dell’Fbi fu arrestato, interrogato e dopo poco rispedito in Arabia Saudita. Al-Thumairy fu espulso dagli Usa nel 2003 e anche lui tornò in patria.

E quindi? Nessuno ha mai potuto (o voluto, come sostiene da vent’anni l’Associazione dei parenti delle vittime) stabilire prove alla mano che i due, oltre a essere ben introdotti nel corpo diplomatico saudita, agissero anche per conto del Governo saudita. Le autorità del Regno hanno sempre negato qualunque coinvolgimento e hanno fatto trapelare l’idea che semmai i due facessero parte di un gruppo di simpatizzanti qaedisti infiltrato nei servizi segreti. Difficile scegliere e persino distinguere. Per decenni i sauditi avevano investito miliardi per diffondere in ogni parte del mondo l’islamismo più radicale, quello ispirato dal wahabismo che nel Regno è religione di Stato. Osama bin-Laden era stato una loro creatura, prima della scomunica, e Al-Qaeda aveva a lungo vissuto delle donazioni pubbliche e private in arrivo dall’Arabia Saudita. Ci si poteva stupire se qualcuno, anche all’interno dei servizi, non avesse accettato il “contrordine compagni”? Di certo, qualcuno, da qualche parte, conosce la verità. Arriveremo mai a conoscerla anche noi?

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