Un paese che ha perso la capacità di investire in innovazione e di attuare una politica industriale degna di questo nome che, imitando le best practices di grandi multinazionali come Ibm o Intel, nel corso degli anni accompagni prima lo sviluppo, poi lo sfruttamento, infine l’uscita dai vari settori produttivi in favore di nuovi e investimenti in attività e tecnologie a maggior valore aggiunto, non può che essere votato al declino. Se poi la cura (letale) per correggere troppi anni di automatismi salariali, governance poco efficienti sia in ambito privato (con azioni che troppo spesso si sono “pesate” e non contate) sia pubblico (dove non sempre è stata la competenze il fattore discriminante delle nomine di vertice di imprese a partecipazione statale e ministeri) e una idiosincrasia al concetto di “libera concorrenza” è individuato nell’abbattimento di un costo del lavoro su cui continua a insistere un prelievo fiscale che non può avere paragoni né con i paesi emergenti né con la maggior parte dei partner europei a partire dalla Germania, il rischio di ritrovarsi a parlare sempre più spesso della crisi di Alitalia o delle tensioni alla Electrolux, per non dire della graduale uscita dall’Italia di Fiat, è concreto.
Il problema è che, semplicemente, non è pensabile né auspicabile che il costo del lavoro italiano possa diventare competitivo rispetto a quello polacco, sloveno o indiano, per non dire cinese. Perché ciò richiederebbe un costo della vita parimenti “competitivo” che è di fatto impossibile se prima non si aprono alla concorrenza importanti settori economici da quello bancario a quello assicurativo, da quello dell’elettricità alle “libere professioni”. In Italia questo non lo si vuole fare, da parte della classe “digerente” del paese e delle sue varie lobbies e clientele, perché innescherebbe una vasta opera di ridistribuzione della ricchezza che inevitabilmente finirebbe con l’erodere rendite consolidate che hanno finora permesso a un numero relativamente limitato di individui di continuare a controllare mezzi di produzione, banche e imprese pur non avendo i capitali necessari e spesso neppure la competenza o creatività per trovare nuove soluzioni alle sfide che il mercato continuamente propone. Senza un cambio di paradigma, una rivoluzione culturale, questo paese è destinato al fallimento, se non è già fallito.
Com’è possibile, mi chiedo per esperienza diretta, che a distanza di oltre un decennio una banca del Nord di rilevanza nazionale che ha acquisito un altro istituto di medie dimensioni del Sud non abbia ancora oggi sistemi informatici integrati ed in grado di scambiarsi informazioni e così finisca, nel caso della mancanza di un singolo documento o firma necessaria per una qualsiasi norma introdotta o variata negli ultimi anni o mesi, col bloccare per 40 o più giorni un conto corrente e relativi servizi accessori (dal bancomat alla carta di credito fino al pagamento delle utenze)? Non dovrebbe essere possibile o comunque dovrebbe essere una situazione risolvibile, su segnalazione dell’interessato, nell’arco di qualche ora. Eppure l’interessato (il sottoscritto) da quasi 20 giorni non è ancora in grado di risolverla pur avendo adempiuto ad ogni richiesta dell’istituto.
Com’è possibile, mi chiedo ancora per esperienza diretta, che un’assicurazione come l’Rc Auto (guarda caso obbligatoria, guarda caso l’unica voce che da anni continua a crescere, “sostenendo” i bilanci dei rami Danni delle compagnie operanti in Italia, mentre tutti o quasi gli altri rami vedono una raccolta premi in calo fiaccata dalla crisi) debba costare, a parità di autovettura e conducente/proprietario, poniamo 100 a Milano o Torino e 300 o più a Napoli? Le compagnie sostengono che ciò è dovuto alla maggiore incidenza di truffe che altera le statistiche di sinistrosità da un capo all’altro della penisola. Ma a parte il fatto che questo sarebbe risolvibile con un’azione incisiva di controllo da parte della assicurazioni stesse e non semplicemente scaricando il costo delle proprie inefficienze sulle spalle degli assicurati, voi veramente credete che a Napoli le compagnie risarciscano il triplo o più di danni rispetto a Milano per incidenti stradali? E non si accorgano, putacaso, che nei loro bilanci risulta un numero spropositato di "residenti" fuori provincia (o regione) che pure vede il proprio veicolo coinvolto in incidenti a Napoli o in Campania?
Quanto a lungo vogliamo continuare a farci prendere in giro? Per troppi anni, purtroppo, questo paese si è accontentato di vivere in un’aurea mediocritas, cullato da una crescita mondiale che almeno fino ad inizio millennio si è sempre mantenuta su livelli più che dignitosi anche nel Bel Paese. Ma gli anni in cui questo paese sapeva inventarsi un “miracolo economico” sono ormai lontani e più che i nostri prodotti, servizi e marchi (che infatti continuano a essere comprati) sono i nostri modelli organizzativi, produttivi e di redistribuzione del reddito che stanno cadendo a pezzi per mancanza di manutenzione ordinaria e di capacità di programmazione. I colleghi analisti delle principali banche d’affari non sono in realtà così negativi sulle possibilità che anche l’economia italiana possa riprendersi, a patto che quest’anno non lasci passare l’ennesimo treno rimanendo immobile senza alcuna riforma. Ma le riforme vanno fatte con ordine e precisione, valutando cosa sia meglio per il paese in ottica di una maggiore crescita potenziale e poi lavorare sodo per ridurre la distanza tra la crescita potenziale e quella effettiva. Omogeneizzando le condizioni di vita e di lavoro su tutto il territorio nazionale. Non può e non deve più esistere una “questione meridionale”, non possiamo e non dobbiamo più accontentarci di essere un paese “periferico” dell’Unione europea. Altrimenti sarà solo una guerra per bande in cui il più forte cercherà di sopravvivere il più a lungo possibile ad una caduta comunque inevitabile.