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El Chapo Guzmàn, se il narcotrafficante diventa un eroe nazional-popolare

I messicani lo considerano un eroe alla stregua di Zorro. I cantanti gli dedicano ballate eroiche esaltando le sue gesta. La rivista Forbes lo considera uno degli uomini più potenti al mondo. Appena evaso ha, poi, rinverdito il suo mito attaccando a muso duro la campagna anti latinos portata avanti dal multimiliardario Donald Trump.
A cura di Marcello Ravveduto
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I narcotrafficanti messicani sono, insieme ai terroristi islamici, uno dei principali capri espiatori della rinnovata politica aggressiva e di espansione neocolonialista voluta dei repubblicani americani e ben rappresentata dal miliardario Donald Trump, candidato alla Casa Bianca. Gli esponenti dell’elefantino si scagliano contro i cartelli norteñi, considerandoli colpevoli dell’espansione del narcotraffico in Usa, così come negli anni Ottanta andarono all’assalto di Pablo Escobar e dei narcos colombiani.

Il magnate nello scorso giugno ha lanciato una vera e propria campagna di propaganda anti latinos che vuole sfruttare, al fine di ottenere consenso elettorale, la paura dei cosiddetti Wasp (acronimo dell'espressione White anglo-saxon protestant – bianco di origine anglosassone e di religione protestante -) per il rapido e inarrestabile processo di ispanizzazione della società americana. Trump ha inveito senza mezzi termini contro la Repubblica messicana ritenendola direttamente responsabile dell’ondata di «spacciatori, criminali e stupratori» che si riversa annualmente in America dal continente sudamericano.

Un tema che sta condizionando il dibattito politico. Sulla presa di posizione di Trump, infatti, è intervenuta Hillary Clinton, candidata democratica per la nomination presidenziale. L’ex first lady ha dichiarato a Kansas City, durante l’assemblea del Consiglio de La Raza (il principale organismo di rappresentanza dei cittadini latinoamericani residenti in Usa), che le affermazioni dell’immobiliarista sono la spia di un conservatorismo sociale e classista dannoso.

«È stato terribile sentire Donald Trump che descrive gli immigrati come spacciatori di droga, razzisti e criminali», ha detto la Clinton. «Sta parlando di persone che io e voi conosciamo. Sta parlando di persone che amano questo paese, che lavorano duro e non desiderano altro che la possibilità di costruire una vita migliore per sé e per questo paese». Ha poi continuato: «Quando le persone e le aziende di tutto il mondo hanno respinto i suoi commenti di odio, ha chiesto scusa? No, ha rincarato la dose». Infine, per entrare in sintonia con il pubblico, ha concluso: «Ho una sola parola per Donald Trump: Basta! Basta!». Ripetendo l’esclamazione sia in spagnolo, sia in inglese: «¡Basta! Enough!».

Al fondo della questione c’è il problema della transizione demografica: la popolazione americana ha un tasso di natalità superiore alla media degli altri Paesi ricchi proprio grazie all’afflusso di “nuovi” cittadini provenienti dall’Asia e dall’America Latina. In particolare, gli ispanici sono la seconda componente (54 milioni oltre il 50% dei quali di origine messicana) dopo i caucasici mentre gli asiatici sono terzi con 20 milioni (ma i loro ingressi hanno subito negli ultimi anni un’impennata). Tuttavia, gli ispanici svolgono, nella maggior parte dei casi, mansioni poco qualificate e scarsamente remunerate (nell’edilizia e nella ristorazione), restando nelle fasce sociali più basse, mentre gli asiatici hanno redditi superiori anche rispetto a quelli dei caucasici che entro il 2044 diventeranno minoranza.

Dopo questa premessa è facile comprendere perché la fuga de El Chapo Guzmàn, il boss dei boss dei narcos messicani, abbia provocato uno sbotto d’ira del miliardario, lanciato in rete con due Tweet. Nel primo afferma che El Chapo e i Cartelli messicani usano la frontiera come un aspirapolvere per risucchiare droga e morte negli Stati Uniti; nel secondo ironizza sul tempismo dell’evasione collegandola alla sua campagna contro i messicani.

Trump ha colpito nel segno visto che ha ricevuto una risposta a muso duro dall’account “ufficiale” di Guzmàn (sicuramente non gestito dal boss, ma da qualcuno a lui vicino): «Continui a dare fastidio, voglio farti inghiottire tutte le tue puttanate da sporco razzista». Più o meno è questa la traduzione del messaggio a cui non c’è stata replica.

Con questa minaccia, apparsa subito dopo la sua evasione, El Chapo non solo richiama l’attenzione internazionale, amplificando ulteriormente la portata mediatica della sua fuga, ma conferma la sua fama di eroe nazional-popolare. Nessun dignitario della Repubblica messicana si è sognato di reagire così aspramente alla diffamazione di Trump, l’unico che ha avuto il coraggio di difendere i latinos, dall’accusa di essere spacciatori, stupratori e criminali (le stesse calunnie ricevute dagli italiani alla fine dell’Ottocento), è stato, paradossalmente e strumentalmente, il boss dei narcos.

Un eroe che ha trasformato il narcotraffico in un pilastro dell’economia nazionale arricchendo capi e affiliati e distribuendo reddito ai meno abbienti. In verità, la sua ricchezza, paragonabile a quella di Pablo Escobar, sarebbe impossibile senza i consumi massivi degli Usa. Una domanda talmente elevata di stupefacenti da provocare la crescita continua dell’offerta che non pare avere problemi di saturazione del mercato.

Come già era accaduto negli anni Ottanta in Colombia, gli Stati Uniti invece di programmare politiche di prevenzione e riduzione del danno, attrezzando un intervento pubblico sociale dedicato alla tossicodipendenza, preferiscono finanziare la repressione nei paesi produttori e distributori, ovvero comprare armi e mezzi tecnologici dalle onnipresenti lobby industriali, fingendo di non vedere la realtà: migliaia di bianchi anglosassoni protestanti che investono miliardi di dollari per spartire la torta con i cartelli messicani.

Se così non fosse la rivista Forbes non lo avrebbe piazzato, nel 2013, al sessantasettesimo posto tra i cento uomini più potenti al mondo con una disponibilità liquida di tre miliardi di dollari l’anno. Nonostante ciò, e questo è significativo per la costruzione del personaggio, si presenta con un aspetto dimesso e nelle rare occasioni in cui è stato interrogato si è preso gioco degli inquirenti rispondendo sempre la stessa cosa: «sono un contadino e mi sono sempre guadagnato la vita coltivando fagioli e granturco».

La sfida allo Stato diventa sarcasmo sociale un po’ come faceva Cutolo quando gli piaceva essere paragonato a Robin Hood. Per altri aspetti, invece, Guzmàn pare richiamare la figura di Riina: il soprannome el Chapo, “Il Piccoletto”, tradotto in siciliano, è “U Curtu”, ovvero lo stesso alias del Capo dei capi. Non solo. Il cartello di Sinaloa ha un’organizzazione simile a Cosa nostra: una cupola a conduzione plurifamiliare, pronta a sostituire immediatamente il boss in caso di cattura o di omicidio. Inoltre, il territorio è suddiviso in zone controllate da sub-cartelli che svolgono una funzione analoga ai mandamenti mafiosi. Con l’arresto del 2014 il posto di Guzmàn è stato occupato in maniera pro tempore da el Mayo Zambada, detto il Padrino. Anche per lui è stata trovata una somiglianza ad un boss mafioso: Bernardo Provenzano. Nell’ultimo anno e mezzo ha gestito il cartello di Sinaloa mantenendo il profilo più basso possibile.

Dunque è un soggetto da epopea, di quelli che tanto piacciono a scrittori e giornalisti di fatti criminali. L’evasione, sotto gli occhi impassibili dei carcerieri è una sua specialità. La prima volta è uscito rintanato nella cesta dei panni sporchi destinati alla lavanderia; la seconda tramite un tunnel sotterraneo, scavato nella fondamenta del carcere, dove c’era un moto ad attenderlo. In entrambi i casi ha corrotto il personale penitenziario, ma le modalità del dileguamento sono così fortemente letterarie che è impossibile, per i messicani che lo ammirano, non considerarlo uno Zorro contemporaneo: un nemico inafferrabile per lo Stato, un eroe enigmatico per il popolo.

El Chapo, però, non piace solo agli scrittori e ai giornalisti, ha conquistato anche i musicisti: è il personaggio a cui sono stati dedicati il maggior numero di narcocorridos (le ballate contadine inneggianti le gesta dei trafficanti).

Il giorno dopo l’evasione il gruppo Enigma norteño ha caricato su Youtube la canzone intitolata “La fuga del Chapo” nel cui testo è scritto: «È fuggito el Chapo Guzmàn/ dal carcere di Almoloya,/ ha offerto biglietti verdi/ per poter scappare./ Con i soldi il cane balla/ le porte si sono aperte da sole,/ dove sta el Chapo Guzmàn/ solamente Dio lo sa./ Sarà in Sinaloa/ o sarà alla frontiera,/ l’ha attraversata con gli aerei/ o l’ha varcata via terra,/ sierra di Badiraguato/ tu che l’hai visto nascere,/ proteggi bene il tuo figlio/ che non tornino a prenderlo di nuovo./ Il denaro piace/ non c’è poliziotto che resista,/ nessuno guarda la banconota/ l’afferrano con una risatina./ Il signor Chapo Guzmàm/ è stimato da tutta la sua gente,/ lo rispettano e lo ammirano/ perché è molto intelligente./ Ora vi dico addio/ e non dimenticate,/ per fortuna sono libero/ sono fuggito dalla galera,/ e se Dio lo vorrà/ non ho nessuna intenzione di tornarvi,/ addio dice al suo amico/ il signor Chapo Guzmàn».

A dire il vero, il giorno dopo l’allontanamento c’è stata una vera e propria gara a chi scriveva il primo testo. Poche ore dopo la diffusione della notizia un’utente di Youtube, Patty Cruz, ha caricato una canzone con lo stesso titolo, “La fuga del Chapo”, interpretata, secondo la donna, da Humberto Reyes el HR e el Kompa zacatecano in un ristorante all’aperto. Con fisarmonica e chitarra, i cantanti, in meno di tre minuti, esaltano le doti del «gran campione» che descrivono come «un capo dal molto onore». E continuano: «Tanto di cappello, perché questo gallo (è un modo machista per definire i narcoboss) è molto astuto, con gli speroni d’acciaio, ha già dimostrato un’altra volta di saper fuggire dalla galera, ora è riuscito a burlarsi nuovamente di questi miserabili che lo avevano rinchiuso, perché il suo talento è smisurato e la sua fama irraggiungibile».

Domenica 13 luglio appare un altro video postato dal cantante Mario el Chacorro Delgado che interpreta per alcune persone un corrido il cui testo è ispirato all’ironia del Chapo nei confronti della polizia: «soffro di claustrofobia, mi sento come se m’avessero seppellito, perciò, con il permesso delle guardie, preferisco stare in montagna». E conclude: «Non posso restare dentro perché fuori è un casino, devo badare al mio popolo, ho un mucchio di lavoro da fare, non posso permettermi questo lusso».

Anche la prima evasione ha avuto la sua colonna sonora. Ci ha pensato Alfredo Ríos el Komander, componendo, nel 2010, un brano ancora col medesimo titolo, “La fuga del Chapo Guzmán”. Nel 2012, invece, ispirandosi alla notizia della fuga di Guzmàn da un’operazione della polizia federale che lo intercettato presso una delle sue fattorie, scrive la canzone “Estrategia de Escape”.

Le sue gesta “eroiche” hanno, infine, stimolato la nascita di un sub-genere del narcocorrido definito “corrido progresivo” in cui si parla esplicitamente, con nomi, cognomi e affari, delle attività criminali e si replica sulle copertine dei cd e nei videoclip le immagini di violenza disumana della narcoguerra. L’interprete più famoso di questa categoria è Gerardo Ortiz che nel 2012 ha dedicato un brano a el Chapo intitolato “El Primero Ministro”.

Considerato che Guzmàn è il sessantasettesimo uomo più potente al mondo che ha sua disposizione un esercito preparato alla guerra, dotato di armi sofisticate e tecnologicamente avanzate, una flotta di veicoli blindati, di arei e di sottomarini, con cui introduce la droga in Usa, e tanto denaro contante, equivalente al bilancio di uno Stato, possiamo ritenere che Ortiz abbia ragione quando lo paragona al Primo Ministro.

Del resto, proprio come se lo fosse, non ha esitato a prendere virtualmente per il bavero Donald Trump e la sua campagna anti messicana.

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