Mentre a Piazza Affari le grandi case d’investimento tornano a tenere d’occhio titoli del lusso come Yoox e Moncler, che nel primo semestre dell’anno avevano perso terreno rispetto ai massimi toccati a fine 2013 ed ora potrebbero prepararsi ad un rally da qui al prossimo Natale, a tenere gli operatori incollati davanti agli schermi è un titolo “old economy”, Fiat, che potrebbe inserirsi da protagonista nel trend tipicamente estivo delle “fusioni e acquisizioni”. No, il Lingotto, impegnato ufficialmente nella preparazione dell’assemblea straordinaria che a inizio agosto approverà la fusione tra Fiat e Chrysler, sempre più vero motore dei conti del gruppo visto la perdurante latitanza della domanda domestica e l’andamento ancora irregolare dei mercati europei (Germania esclusa), non sta pensando di imitare Gtech che si è appena comprata l’americana International Game Technology con un’operazione da 6,4 miliardi di dollari (di cui 4,7 miliardi in contanti e azioni e 1,7 miliardi rappresentati dall’assunzione del debito pregresso di Igt).
Semmai è, a dar retta alle indiscrezioni che stamane rimbalzano dalla stampa tedesca (in particolare dal mensile Manager Magazin, che cita non meglio precisate “fonti interne al gruppo”), la rivale di sempre, Volkswagen, ad aver messo gli occhi sul gruppo tricolore. Non sarebbe una novità: ai tedeschi il “made in Italy” piace, come prova l’acquisizione da parte di Audi (che pure appartiene al gruppo Volkswagen), nel 2012, delle moto Ducati, all’epoca controllate dal fondo Investindustrial della famiglia Bonomi (ex proprietari della Mira Lanza negli anni Settanta, poi divenuti finanzieri a tutti gli effetti, con varie puntate più o meno fortunate sui grandi nomi del credito e dell’industria in Italia e all’estero, tra cui Bpm e Club Med). Di certo se dovessi scommettere su chi, tra Volkswagen e Fiat Chrysler Automobiles, potesse mai rilevare il concorrente, in tutto o in parte, sceglierei anch’io il gruppo tedesco, se non altro per la maggiore forza finanziaria di cui dispone. L’operazione però mi pare poco sensata per una serie di motivi.
Anzitutto al momento Volkswagen è impegnata nella ristrutturazione della divisione mezzi pesanti: a maggio l’offerta da 6,7 miliardi di dollari per il riacquisto delle azioni di Scania che ancora non possedeva è stata accettata dagli azionisti del produttore svedese, che ora è per oltre il 90% di proprietà del gruppo tedesco e potrà essere integrato con Man e con la divisione veicoli commerciali di Volkswagen stessa come ha subito sottolineato l’amministratore delegato del gruppo, Martin Winterkorn. In ballo ci sono sinergie potenziali stimate pari a 650 milioni di euro l’anno una volta che il tutto sarà a posto, ma per andare a regime gli analisti prevedono occorreranno quasi dieci anni.
Capitali e uomini di Volkswagen sono dunque già al lavoro, e lo resteranno a lungo, e se reperire capitali non sembra difficile grazie alla forza della Germania (che si riflette, tra l’altro, in tassi che restano vicini allo zero anche sulle emissioni obbligazionarie oltre che sui prestiti bancari), riuscire ad avere le risorse manageriali per gestire con successo un’integrazione tra Volkswagen e Fiat Chrysler Automobiles potrebbe non essere così semplice. Se poi anche si trovassero gli uomini e i mezzi per fare una simile operazione, che varrebbe almeno 10-11 di miliardi di euro visto che Fiat capitalizza attorno ai 9,5 miliardi e che andrebbe offerto un premio (presumibilmente del 10%-15%) per convincere gli azionisti a cedere i propri titoli, vi sarebbero notevoli sovrapposizioni di gamma, entrambi i produttori essendo dei “generalisti” che offrono dalle city car alle auto di lusso.
Più logico potrebbe essere invece un’offerta per qualche pezzo pregiato come Alfa Romeo o Maserati, ma Sergio Marchionne ha più volte detto di voler puntare proprio sull’Alfa Romeo (che entro il prossimo anno dovrebbe sbarcare nuovamente negli Usa) per far “salire” il gruppo verso l’alto di gamma e migliorarne così la redditività, che sulle piccole cilindrate è ormai ridotta all’osso quando non negativa, anche se la produzione di auto di piccola taglia ha una sua logica industriale consentendo di saturare gli impianti produttivi e dunque di “spalmare” gli ammortamenti dei relativi costi. Ancora meno probabile che Marchionne possa rinunciare a Chrysler, finora rivelatasi la vera “gallina dalle uova d’oro” ed il cui rilancio ha consentito di controbilanciare la crisi delle vendite in Europa negli ultimi anni.
Certo, Fiat Chrysler Automobiles qualche segnale di miglioramento sta iniziando a registrarlo anche in Europa: a giugno ad esempio le immatricolazioni europee di Fca sono aumentate del 6,9%, contro il +4,5% segnato dal mercato, con una quota di mercato che è così risalita al 6,1% contro il 5,9% di un anno fa e buoni riscontri di vendita sui principali mercati europei. Se in Italia ci si è dovuti accontentare di un +3,1%, in Germania le immatricolazioni sono salite del +14,1% (mentre il mercato ha segnato il passo: -1,9%), in Francia dell’1,2%, in Gran Bretagna del 16,2% (contro il +6,2% medio), in Spagna addirittura del 55,8% contro il +23,8% del mercato(tanto che la quota è risalita al 5,4%, l’1,1% in più rispetto al giugno 2013). Ma i mesi estivi non sono esattamente affidabili quanto a cifre assolute e tendenze per quanto riguarda la vendita di automobili, per cui sarà meglio restare coi piedi per terra.
Alla fine, probabilmente, è solo una “sparata” estiva utile a muovere il titolo in borsa più che il preannuncio di un nuovo ammainabandiera dell’industria italiana. Che tuttavia resta ugualmente l’esito più probabile se non cambieranno le condizioni che hanno portato Fca a vendere 4,35 milioni di vetture nel 2013 e a stimare di venderne 4,5-4,6 quest’anno (l’obiettivo sarebbe di tornare sopra i 6 milioni l’anno entro il 2018, con 7 milioni di veicoli venduti all’anno come “stella polare” da inseguire), mentre Volkswagen lo scorso anno ha immatricolato 9,5 milioni di veicoli tra auto, veicoli commerciali e mezzi pesanti ed entro il 2018 è quasi certa di superare i 10 milioni di immatricolazioni annue anche grazie a un imponente piano di investimenti (100 miliardi sempre entro il 2018) che gli attuali numeri impediscono a Marchionne anche solo di sognare.