Riuscirà la ripresa italiana ad afferrare il vento della fiducia ai massimi degli ultimi 13 anni sia da parte delle famiglie sia delle imprese e spiccare finalmente il volo dopo sette anni di crisi? Il premier Matteo Renzi lo spera certamente così come spera che l’ordine non cambi anche cambiando l’ordine dei fattori: prima un taglio alle tasse sulla casa, così da rubare la palla al Centrodestra, poi eventualmente sul lavoro, anche se logica economica ed equità sociale vorrebbero che le due cose avvenissero contemporaneamente o, non potendo, nell’ordine inverso, come chiede, per ora inutilmente, l’Europa (e una parte di analisti ed economisti, ultimo per importanza il vostro commentatore).
Certo è che gli attori in gioco si stanno muovendo: stasera, ad esempio, UniCredit ha annunciato in una nota di avere raggiunto un accordo con AnaCap Financial Partners “per il trasferimento, con la formula pro-soluto, di un portafoglio di crediti in sofferenza del valore nominale di 1,2 miliardi di euro”. La cessione, precisa la nota che per non fa cenno del controvalore pagato a Unicredit, si riferisce al portafoglio Trevi 3, circa 670 milioni di euro al valore lordo di libro, composto di crediti in sofferenza di vecchissima formazione, sia garantiti che non, a Pmi e piccole attività economiche. Si tratta della quarta vendita di asset “non core” portata a termine dal gruppo quest’anno, ma non sarà certamente l’ultima, visto che gli ultimi dati disponibili parlavano di 81,7 miliardi di asset deteriorati lordi in portafoglio, a fronte di 473,9 miliardi di crediti totali.
Da parte sua AnaCap ha ricordato come l’operazione segua l’acquisto di un portafoglio simile di “non performing loans” (Npl) di Unicredit del valore nominale di 1,9 miliardi di euro avvenuta nell’ottobre 2014. I fondi AnaCap hanno acquistato in tutto 6 miliardi di euro di crediti in sofferenza italiani negli ultimi tre anni, oltre ad un portafoglio di 550 milioni di euro di prestiti “in bonis” garantiti su salari, ma “con quasi 800 miliardi di Npl ancora nei bilanci delle banche europee, c’è una continua necessità di istituzioni specialistiche come la nostra per alleviare la pressione sulla banche e incoraggiare la ripresa dei prestiti in Europa”, ha subito commentato Justin Salger, partner di AnaCap Financial Partners.
Se il governo cerca di allentare in qualche modo il giogo fiscale e le banche di alleggerirsi del fardello dei crediti deteriorati (ma non c’è da illudersi, per il settore bancario un altro “fardello” resta rappresentato da un numero di addetti eccessivo, frutto di un’altra epoca fatta di una continua rincorsa all’apertura di filiali che la frenata economica da una parte e la rivoluzione digitale dall’altra ha finito col rendere semplicemente inutili o troppo poco remunerative), cosa può andare storto?
Il rischio continua ad essere quello che la frenata della Cina, ormai seconda maggiore economia mondiale, e dei paesi emergenti in genere (stanno già soffrendo da tempo anche Brasile e Russia), o singole vicende come lo scandalo emissioni con il peso che rischia di avere sul settore europeo(ed italiano) possa generare un attrito tale da far perdere di slancio alla ripresa in fase di decollo, con esiti che potrebbero essere dolorosi. Lo si è visto bene oggi, con mercati azionari indietro tutta dopo che gli utili delle aziende cinesi hanno deluso, facendo perdere quota al comparto delle materie prime.
Così l’Italia, ancora una volta, rischia di giocarsi tutto sul filo di un rasoio, mentre l’incapacità dell’Europa di affrontare la crisi della sua sponda Sud può farci perdere un’occasione secolare, quella di integrare milioni di nuovi cittadini portatori di speranze, voglia di crescere e competenze utilizzabili anche dalle nostre aziende.