Come sempre in Italia le cose più interessanti su un’impresa, un manager o un imprenditore si scoprono “ex post”, quando il potere economico e mediatico del soggetto è ormai declinante o del tutto declinato. Così leggendo l’interessante intervista del collega ed amico Andrea Deugeni a Carlo Ciani, classe 2934, fino al 2002 presidente e amministratore di Sai, la compagnia del gruppo Premafin (holding di cui lo stesso Ciani è rimasto fino allo scorso anno consigliere di amministrazione controllata dalla famiglia Ligresti, i cui esponenti sono finiti ieri in manette nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Torino su un possibile caso di falso in bilancio) fusasi poi con La Fondiaria in quella che fu una delle tante operazioni pilotate dalla Mediobanca di Vincenzo Maranghi, delfino di Enrico Cuccia che per oltre un cinquantennio ha costituito il massimo difensore degli interessi del “capitalismo familiare” italiano, si ritrovano interessanti conferme a tante ipotesi “di colore” finora circolate in merito agli usi e costumi della famiglia di imprenditori siciliani.
Spiega l’ormai settantanovenne Ciani che il problema delle riserve, per quanto possa essere giudicato sorprendente per le cifre di cui si parla in questi giorni, era “già emerso negli anni scorsi quando si è dovuto ricorrere a più aumenti di capitale”, operazioni “pesanti che hanno finito per mettere fuori gioco i Ligresti”. Del resto, spiega l’assicuratore, “nelle compagnie assicurative gli accantonamenti per le riserve sono il punto cruciale da cui dipendono i risultati di bilancio. Se uno non fa gli accantonamenti giusti è chiaro che può conseguire anche degli utili, proprio com'è accaduto nel 2010 in FonSai”, a beneficio solo di alcuni azionisti (in particolare, secondo l’accusa, Premafin stessa) e a danno degli altri. I Ligresti avrebbero dunque voluto troppo e a causa della propria avidità avrebbero finito col crearsi con le proprie mani la “trappola” in cui sono caduti? O c’è stata qualche “manina” interessata a dare loro una spinta, per eliminare gli esponenti di una “vecchia guardia” del capitalismo tricolore e prenderne il posto?
Ciani questo non lo dice, ma nota come “Ligresti era un po’ un Onassis italiano, che ha sempre lavorato con i soldi dei terzi. Nelle sue avventure ha sempre messo pochi soldi suoi. S’indebitava enormemente con le banche, non riuscendo in un secondo momento a far fronte agli impegni a causa delle numerose crisi che incontrava sul mercato immobiliare. In più, nella vendita degli immobili ad alcuni enti amministrati da persone vicine alla politica, aveva una gestione garibaldina”. Il che non pare corrispondere a quei profili di imprenditorialità “sana” e di “buona gestione” di cui da sempre si riempiono la bocca i retorici delle virtù del settore privato italiano, che come ho più volte ripetuto è il perfetto contrappeso (purtroppo) di un settore pubblico pieno di vizi e burocrazia e povero di virtù e di eccellenze (che pure esistono, tanto nel comparto pubblico come in quello privato, ma sovente faticano ad emergere in Italia a causa di persistenti meccanismi di selezione negativa).
Ma quando si è guastato il rapporto tra Ciani e i Ligresti? Nel 2002, quando “messa a posto la situazione finanziaria e preparata la fusione fra Fondiaria e Sai, la coabitazione è diventata più difficile”. Ormai tranquilli riguardo la propria sopravvivenza come imprenditori, i Ligresti chiesero in sostanza a Ciani di farsi da parte “per far entrare nella compagnia una persona molto preparata come Enrico Bondi, manager che è durato però soltanto 6 mesi” spiega Ciani perché “non si mise d'accordo con i Ligresti sulle deleghe”: “se io ero il “signor No”, Bondi era il “signor doppio No”. Ero diventato una sorta di tappo per la gestione Ligresti” che a quel punto ha preferito sostituire Bondi con Fausto Marchionni (tra i destinatari dei provvedimenti di restrizione della libertà personale eseguiti ieri dalla Guardia di Finanza, ndr), “una persona molto preparata che veniva dalla rete agenziale, che aveva un eloquio facile e con un buon rapporto con i soci” spiega ancora Ciani, che però era maggiormente “disponibile alle politiche aziendali che gli azionisti di maggioranza pretendevano”.
Insomma, Marchionni sarebbe stato un “signor sì”, come quelli che piacciono molto agli imprenditori italiani, che spesso di essi si circondano, salvo magari scoprire che in situazioni di crisi questi manager non sono in grado di esprimere una visione differente da quella dell’imprenditore, col rischio di arrivare a situazioni di grande sofferenza come quella in cui è venuta a trovarsi infine Fondiaria-Sai, salvata lo scorso anno in extremis da Unipol, ancora una volta grazie alla regia di Mediobanca. Se questo è il quadro più o meno fedele (e di certo verosimile) di una delle maggiori compagnia assicuratrici italiane, il fatto che il Belpaese si dibatta in una crisi economica dai tratti sempre più secolari, legata dunque alla rottura di un modello culturale prima ancora che ad uno scenario macroeconomico avverso, davvero non può più stupire nessuno. Come non stupisce la difficoltà con cui stanno iniziando a emergere figure “nuove” in ambito finanziario, industriale e politico, in grado di far ripartire il paese.