Mentre l’Istat ci rassicura che in base al nuovo Sistema europeo dei conti nazionali e regionali (Sec 2010), che calcolano tra le componenti del Prodotto interno lordo (Pil) anche voci come la prostituzione e il commercio di droghe illegali e che è già adottato da paesi quali la Gran Bretagna e la Germania, rispetto ai dati calcolati sulla base del Sec 95, il livello del Pil nominale per l’anno 2013 è stato rivisto al rialzo del 3,8% ed è ora pari a 1.618.904 milioni di euro correnti (con una riduzione dello 0,6% rispetto all’anno precedente, ovvero dell’1,9% in volume), aggiungendo che i tassi di variazione del Pil per gli anni recenti “hanno, invece, subìto revisioni molto contenute. In particolare, il tasso di variazione del Pil in volume del 2013 è risultato identico a quello stimato a marzo 2014; quello relativo al 2012 è stato rivisto al rialzo da -2,4% a -2,3%. nel 2013 il Pil ai prezzi di mercato è risultato pari”, c’è chi torna a suggerire al Bel Paese una (unica a suo giudizio) opzione per far ripartire la crescita: l’uscita dall’euro.
L’esperto in questione è Roger Bootle, direttore di Capital Economics ed uno dei più apprezzati economisti che lavorano alla City di Londra, che sull’edizione domenicale del Daily Telegraph, in coincidenza col G20 australiano, ha ammonito: tra i paesi del G7 solo il Giappone e l’Italia non sono ancora riusciti a superare i livelli del Pil segnati prima della crisi del 2008-2009, ma il problema, nel caso italiano, è sorto ben da prima visto che dal 1999 l’economia italiana è cresciuta mediamente solo dello 0,3% annuo. Alcuni aspetti del “problema italiano” sono noti da decenni ricorda Bootle, mentre altri sono relativamente nuovi: “Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, anche se la politica italiana era caotica e i governi disfunzionali, grazie all’industrializzazione l’economia è cresciuta molto velocemente” tanto che l’Italia vinse “i campionati del Pil” e nel 1979 superò il Regno Unito in termini di Pil, “un evento per il quale gli italiani si rallegrarono chiamandolo “Il Sorpasso”.
Ma i problemi di fondo vennero solo mascherati (e le soluzioni rinviate sine die): “nonostante ci fosse una inflazione tendenziale elevata, un sollievo fu sempre a portata di mano sotto forma di una lira debole. E l’economia ha continuato a crescere. Ma poi tutto ha cominciato ad andare male”, il Regno Unito “ha superato l’Italia di nuovo nel 1995 e il divario tra le due economie si è da allora ampliato”. Inutile dunque gettare tutta la colpa sull’euro (o sulla Merkel, aggiungerei io): l’Italia ha da decenni un disperato bisogno di riforme che nessun politico ha avuto la capacità e il coraggio di fare. Certo, “l’euro non ha certamente aiutato perché, sin dall’inizio, i costi italiani hanno continuato a salire più rapidamente di quanto facevano in Germania o in altri paesi core” e a differenza che in passato questo non è più stato compensato da una svalutazione della valuta. Ma la perdita di competitività italiana è frutto soprattutto del graduale emergere dei mercati emergenti e dell’incapacità di spostarsi lungo la catena del valore.
La Germania, di cui tanto si parla per la politica salariale e fiscale “feroce” che ha portato il paese ad essere descritto come una “Cina europea”, produce prodotti “a elevata specializzazioni, grandi beni di consumo durevoli e macchinari”, mentre l’Italia “si è specializzata esattamente verso il basso, con beni di consumo a media specializzazione che la Cina e gli altri paesi emergenti hanno iniziato a produrre più a buon mercato”. Insomma: più che l’euro è stata la miopia degli imprenditori e della classe dirigente politica, economica e finanziaria italiana che non ha saputo utilizzare e ulteriormente rafforzare le competenze italiane, impantanandosi in una situazione sempre più ingessata da molteplici interessi di parte che hanno finito con lo zavorrare a tal punto la macchina economica dall’arrestarla quasi completamente. Così se l’inflazione è un problema superato (fin troppo, visto che le ultime variazioni dei prezzi sono risultate negative e visto l’effetto deleterio che una deflazione, o una bassa inflazione, hanno sull’evolversi del rapporto debito/Pil come più volte ricordato), la disoccupazione è esplosa salendo al 12,6% (ma quella giovanile è prossima al 50%).
Inevitabile, visto che “a differenza di alcuni degli altri membri periferici dell’euro, l’Italia non ha fatto molto per ridurre il divario di competitività” e non è detto, aggiungo, che le misure di cui si discute in questi giorni possano migliorare la situazione (col rischio anzi dell’ennesima, stucchevole, battaglia “di principio” pro o contro l’art. 18). “Con tanto di capacità inutilizzata – concede Bootle – è possibile che la retribuzione e altri costi inizieranno a scendere notevolmente, come accaduto in Spagna, Grecia e Irlanda. Ma se questo accadrà, anche se alla fine dovesse rendere i prodotti italiani più competitivi, l’effetto finale sarà quello di peggiorare l’altro grande problema in Italia: il debito pubblico”. Ah già, il debito verrebbe da dire, come possiamo dimenticarcene? Infatti non dobbiamo. Per l’esperto britannico il problema non è tanto il deficit, per quanto attorno al 3% annuo, quanto la sostenibilità dello stock di debito pregresso.
Se è vero che con i nuovi criteri statistici recepiti anche dall’Istat il rapporto debito/Pil del 2013 si è ridotto dal 132,6% al 127,9%, è evidente che con un rapporto così squilibrato in caso di crescita debole o persino negativa (in termini nominali) l’Italia, ricorda ancora Bootle, “corre il rischio di cadere in quella che gli economisti chiamano la trappola del debito”, una situazione in cui il debito sale rapidamente in proporzione al Pil nonostante un saldo primario (entrate meno uscite al netto del pagamento degli interessi sul debito, ndr) positivo, ossia l’interruzione del circolo perverso dato dalla creazione di nuovo debito per sostenere il debito esistente. Le uniche vie d’uscita da una tale trappola “sono forti inflazioni o default. Ma l’Italia non può reflazionare l’economia perché non ha una valuta autonoma. Così se i non ci sarà una decisa accelerazione abbastanza presto, l’Italia è sul percorso della madre di tutte le crisi sovrane”.
Un modo elegante per dire che il rischio di un default dei titoli di stato italiani non è così remoto come si potrebbe pensare guardando i record che continuamente toccano le quotazioni degli stessi (e pertanto i minimi record toccati dagli interessi pagati su di essi dal Tesoro). Una crisi del debito, tuttavia, rischierebbe di avere serie conseguenze se non per i mercati finanziari mondiali, dato che il debito è in gran parte detenuto da investitori domestici, per le banche italiane, che del debito pubblico tricolore hanno piene le casseforti, quelle stesse casseforti che, ha ammesso oggi Mario Draghi nella sua testimonianza trimestrale al Parlamento europeo, probabilmente non si sono aperte quanto dovevano anche a causa degli stress test in corso in questi mesi da parte della Bce.
Come si può sfuggire a tutto questo? “Il paese – nota Bootle – richiede una riforma fondamentale del suo sistema politico, della giustizia, del fisco e del lavoro”. Ma anche se queste riforme fossero tutte realizzate la minaccia del debito pubblico resterebbe immutata. Soluzioni ad un problema che è andato creandosi negli anni non si trovano nell’arco di una notte conclude l’economista inglese, che conclude: “come il resto dell’Eurozona ciò di cui ha bisogno ora l’Italia è una crescita economica decente” che potrebbe essere raggiunta grazie a politiche fortemente espansive della Bce e una maggiore rilassatezza fiscale tedesca, “ma non c’è da scommetterci troppo”.
Così resterebbe solo l’opzione “radicale”: “uscire dall’euro e consentire ad una valuta più debole di generare un boom delle esportazioni, più elevata inflazione, più tasse e un peso del debito inferiore”. Insomma: dato che l’Italia non è la Grecia e la “bomba” del debito non è disinnescabile senza danni, sarebbe solo una questione di tempo, o l’Italia trova il modo di ripartire o dovrà uscire dall’euro. E il costo? Ricadrebbe ovviamente sugli italiani, specie quelli delle classi medie e medio-basse, che si troverebbero a pagare un costo ancora superiore all’attuale in termini di tasse e perdita di potere d’acquisto (con prevedibile ulteriore peggioramento della crisi della domanda interna e altrettanto prevedibili conseguenze in termini di perdita di posti di lavoro connessi alle produzioni per il mercato domestico), per poter sperare poi di ripartire. Un costo che sarebbe figlio di decenni di malgoverno, di scarso spirito imprenditoriale, del troppo poco spazio concesso al mercato, delle troppe “battaglie ideologiche” con cui si sono persi decenni che si potevano utilizzare per mantenere il paese e le sue aziende competitivo in Europa e nel mondo. Vae victis.