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Usa e Cina verso la recessione? Le borse tornano a tremare

La Federal Reserve fa paura ai mercati: l’economia Usa mostra segnali di rallentamento, che se sommati a quelli cinesi potrebbero far ripiombare il mondo in recessione…
A cura di Luca Spoldi
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La domanda aleggia per tutta la giornata, finchè sugli schermi di Bloomberg Television non appare: “Will web see a recession?” (vedremo una recessione?). Ci si riferisce ai timori che il possibile rallentamento della crescita americana segnalato ieri dalla Federal Reserve possa sommarsi a quello evidenziato da mesi dai dati cinesi e produrre una nuova fase recessiva prima negli Usa e poi anche nel resto del mondo.

Un’ipotesi che anche oggi fa calare i mercati di tutto il mondo, da Tokyo, che aspetta di vedere se domani la Bank of Japan segnalerà di essere pronta a varare nuovi stimoli, visto che la “Abenomics” non sembra funzionare quanto ha continuato a raccontare il premier giapponese Shinzo Abe, a Milano, dove una nuova debacle ha colpito i titoli finanziari per primi, trascinando al ribasso tutti gli altri ad eccezione dei petroliferi.

Attenzione però: i petroliferi non cadono (anzi Saipem, che lunedì ha avviato un aumento di capitale da 3,5 miliardi di euro, dopo tre giorni di continue perdite registra un primo recupero) solo perché il petrolio prova a recuperare ancora un poco di terreno, grazie alle dichiarazioni rilasciate dal ministro russo per l’Energia, Alexander Novak, secondo cui l’Arabia Saudita avrebbe proposto una riduzione fino a 5% dell’offerta da parte di ogni paese aderente all’Opec a sostegno dei prezzi del greggio, proposta che Mosca si è già detta disponibile a sottoscrivere se l’Opec convocherà una riunione straordinaria allargata anche a paesi produttori non appartenenti al cartello.

Peccato solo che vari delegati dei paesi membri dell’organizzazione viennese abbiano subito smentito che una simile riunione si all’ordine del giorno e peccato, si potrebbe aggiungere, che ulteriori conferme della debolezza della ripresa mondiale vengano ogni giorno dal settore dei trasporti marittimi, con un calo del numero di petroliere che trasportano greggio in giro per il mondo, oltre che dal continuo accumulo di scorte negli Usa (ai massimi storici).

Se tenete presente che al petrolio (quello del Mare del Nord) è legata l’economia di paesi come la Finlandia e, almeno in parte, la Gran Bretagna potete capire un altro dei motivi (oltre al calo della domanda da esportazioni) per i quali anche l’Europa può subire un serio contraccolpo da una eventuale recessione statunitense e cinese. Per la verità da parte di analisti e strategisti è tutto un mettere le mani avanti a smentire che i mercati azionari stiano entrando in una fase “orso” e che l’economia debba per forza entrare in recessione.

Se avvenisse saremmo in una situazione non dissimile da quella affrontata nel 2008 e dalla quale il resto del mondo, ma non l’Italia, è riuscito a emergere lentamente e con fatica da meno di un anno. La festa è finita, dunque? Può suonare strano alle orecchie di lavoratori e investitori italiani che in molti casi questa “festa” non l’hanno mai vista iniziare, ma per fortuna ci sono ancora alcuni passaggi prima che il quadro si deteriori definitivamente.

La sensazione è comunque che non ci sia tempo da perdere e che i governi europei debbano in qualche modo anticipare i finora timidi passi verso una politica industriale comune e lanciare finalmente quei piani di rinnovo infrastrutturale di cui beneficerebbe tutto il vecchio continente molto più che non da una progressiva chiusura delle frontiere di ciascun paese nell’illusoria aspettativa di poter così chiudere fuori dalla porta la crisi che oltre che economica è già da mesi umana, come ci ricordano le immagini degli ininterrotti flussi di profughi che cercano in tutti i modi di allontanarsi dalle zone più misere e a rischio di Africa e Medio Oriente per entrare in Europa.

Purtroppo al momento la politica europea è stata ricca di chiacchiere e povera di fatti, a tutti i livelli. Il “piano Juncker” resta una cortina fumogena dietro la quale si intravede ben poca sostanza, la ripresa promessa dai governi italiano, spagnolo e francese è appesa a un filo, così come in Portogallo, mentre in Grecia semplicemente non è mai iniziata e i mercati mostrano di saperlo perfettamente visto l’andamento degli spread tra i rendimenti dei Bund tedeschi, sempre più schiacciati verso il basso, e quelli di Portogallo, Grecia, Spagna e, in parte, Italia.

Poco servirà anche, per il Bel Paese, l’accordo raggiunto l’altro ieri con la Commissione Ue sulle sofferenze bancarie: ha preservato il principio di operare in base ai prezzi di mercato, ma questo se mette al riparo i contribuenti italiani dal dover pagare il costo di una cattiva erogazione del credito da parte delle banche, dall’altra non risolve il problema della insufficiente patrimonializzazione e della difficoltà di rifinanziamento di parte del sistema bancario italiano, quella che in qualche modo il governo vuole provare a riformare.

Riformare è sempre difficile, in Italia e “sotto le bombe rischia di diventare impossibile: ancora una volta più che ai dati macro americani occorrerà guardare alla capacità (o incapacità) di politici, imprenditori e banchieri italiani di sostenere l’innovazione economica e sociale del paese. Altrimenti davvero la festa sarebbe finita ancora prima di essere ricominciata.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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