Fiato alle trombe, Unicredit, dopo una “pulizia di bilancio” profonda che ha alzato dal 43% al 51,7% il grado di “copertura” delle perdite potenziali derivanti da crediti non performanti (npl), dubbi, ristrutturati e con pagamenti scaduti/ritardati, come emerso dai conti presentati in settimana è pronta a ripartire, anche in Italia. E ha fatto sapere, attraverso un’intervista del suo amministratore delegato, Federico Ghizzoni, di essere pronta ad acquistare sino a circa 10 miliardi di euro di crediti vantati dalle aziende italiane nei confronti della Pubblica Amministrazione utilizzando un plafond già esistente ma ancora poco utilizzato perché sinora “le amministrazioni pubbliche non certificano i loro debiti”, ma se questo cambiasse “non avremmo problemi a rilevare quei crediti”.
Aspettate prima di sventolare il tricolore alla finestra piccoli e medi imprenditori italiani, perché vi sono una serie di punti che andrebbero chiariti meglio. Anzitutto chi sarebbero i maggiori beneficiari dell’iniziativa, se essa potesse vedere la luce domattina? Quasi sempre grandi aziende, che con le pubbliche amministrazioni hanno un rapporto quasi quotidiano. Chi è che eroga l’energia elettrica alle migliaia di uffici pubblici? Enel, che infatti già a gennaio di quattro anni fa cedette a Unicredti Factoring 500 milioni di crediti, somme cedute “pro soluto” ossia considerate “certe” (in quel caso legate a forniture testimoniate da bollette per energia erogata alla pubblica amministrazione), ma con tempi di incasso più lunghi del consueto data la cronica mancanza di mezzi freschi nelle casse di enti pubblici e ministeri. Situazioni analoghe potrebbero verosimilmente interessare gestori telefonici, distributori di combustile da riscaldamento, fornitori di autovetture, di servizi e attrezzature informatiche e per ufficio e così via fino ad arrivare a chi eroga servizi di vigilanza degli edifici, di pulizia degli stessi, di manutenzione.
A che costo avverrà l'acquisto? Certo non al valor nominale dei crediti eventualmente ceduti: Unicredit Factoring, ad esempio, nel caso di cessione di credito pro soluto calcola il prezzo in base a tre parametri: la commissione di factoring, relativa alla gestione e garanzia del credito ceduto e che varia in funzione della tipologia, ammontare e durata dei rischi in via di assunzione sui crediti ceduti; le spese accessorie riferite a oneri a carico del cedente (handling, valutazione debitori, istruttoria, postali per cessione, etc); l’interesse vero e proprio, a tassi di mercato (Euribor più uno spread), riferito al costo finanziario dell’anticipazione del credito al cedente rispetto al momento in cui la banca lo potrà materialmente incassare (anche in questo caso il tasso varierà, in base al rating del cliente cedente, alla tipologia e alla durata dei crediti ceduti). Considerando che l’Euribor varia al momento tra lo 0,23% e lo 0,57% e ipotizzando uno spread tra un minimo dell’1% e un massimo del 5%, si avrebbe un costo complessivo tra il punto e mezzo e i sei punti percentuali circa.
Non è finita qui: mentre con una mano dà, con l’altra Unicredit dovrà continuare a prendere. A fine dicembrem dopo le note maxi svalutazioni e accantonamenti il totale dei crediti deteriorati di varia natura non ancora coperti da accantonamenti era pari a 39,815 miliardi (che si sommavano ai 463,3 miliardi di crediti “performing” ossia non deteriorati, non coperti da accantonamenti di alcun tipo, per un totale di 501,3 miliardi di finanziamenti). Ora: sotto la spinta di Banca d’Italia e Bce le banche italiane (Unicredit incluso) hanno come si è visto accelerato la “pulizia di bilancio” di fatto deprimendo il valore di mercato di questi asset, che diversamente dovrebbero riacquistare valore visto che i tassi ai minimi storici (e di cui non è previsto un rialzo prima dell’inizio del 2016) rendono, ceteris paribus, meno oneroso per un cliente in difficoltà continuare a onorare i propri debiti, eventualmente anche procedendo a una ristrutturazione degli stessi (pure in questo caso di solito ne beneficiano le maggiori imprese, come sanno bene anche in casa Unicredit).
Negli ultimi portafogli ceduti dall’istituto milanese (910 milioni di euro a gennaio a due fondi del gruppo Mariner, dopo i 950 milioni ceduti in dicembre al fondo Cerberus) i crediti ceduti erano già stati pesantemente svalutati ma Unicredit secondo voci di mercato ha comunque dovuto “fare a mezzo” con l’acquirente del valore residuo. In soldoni al gruppo guidato da Federico Ghizzoni è stato riconosciuto un 5%-10% del valor nominale dei crediti ceduti. Ora: se questa dovesse essere la fine anche solo dei “non performing” tuttora in portafoglio (47,5 miliardi di valor nominale, già svalutati per 29,5 miliardi), dalla cessione Unicredit ricaverebbe ben che vada sui 5 miliardi a fronte dei 18 miliardi cui sono tuttora iscritte queste poste in bilancio (e degli 8-9 miliardi attorno a cui potrebbe oscillare il loro “vero” valore di mercato).
Questo significa che i 10 miliardi che Unicredit potrebbe “iniettare” nel sistema con molta probabilità finiranno con l’andare a compensare una cifra grossomodo analoga di svalutazioni di crediti non performanti. Il vero beneficiario di tutta la manovra rischiano di essere dunque più che le aziende italiane, che per carità potranno compensare crediti e debiti alleggerendo i propri bilanci, il che non è certo un male specie in previsione di una futura risalita dei tassi nei prossimi 3-5 anni, fondi e banche d’investimento estere. Che, ultimo ma non meno importante, una volta che saranno entrate sul mercato e avranno giocato questa prima redditizia partita potrebbero prenderci gusto e, magari, provare a rilevare qualche istituto o diventarne uno dei soci di controllo.
Anzi, veramente già accaduto: negli ultimi giorni il BlackRock ha infatti annunciato di essere salito sopra il 5% sia in Unicredit, di cui è divenuto il primo azionista, sia in Intesa Sanpaolo, di cui è ora il secondo maggior socio. Vuoi vedere che la “battuta” di un mio ex collega, trader di lunga esperienza, secondo cui dopo aver “inguaiato” (anche) le banche italiane con la vendita di derivati e la pratica di “naked short selling” che scatenarono la crisi finanziaria dei mutui subprime già nel 2007, sono ora pronti a comprasi “per un tozzo di pane” asset interessanti è molto più vicina alla realtà di quanto ufficialmente non si dica?
Se fosse così il prossimo giro di “risiko” che si sta preparando nel settore bancario italiano, con Popolare Bari che ha comprato Tercas e Banco Desio che ha lanciato la sua offerta per Popolare di Spoleto che paiono solo antipasti di future mosse che dovrebbero riguardare Banca Etruria e Lazio, che piace a Popolare Vicentina e Bper, e forse Veneto Banca, che pure piace a Popolare Vicentina, servirà solo per ripulire un poco il terreno di gioco. Poi potrà iniziare la partita vera che si giocherà su tavoli in cui la puntata minima saranno i multipli di miliardi di euro. Con Banca Carige e Mps ancora in fase di convalescenza e le prime due banche italiane che si ritrovano un importante fondo americano tra gli azionisti di controllo l’ipotesi mi pare tutto meno che peregrina, così come potrebbe essere meno che peregrino uno scenario in cui a brand e aziende italiane comprate a piene mani da concorrenti esteri il credito verrà fornito, nei prossimi anni, da banche italiane finite sotto il controllo di grandi gruppi finanziari internazionali.