Mentre Mps prova a riaprire l’offerta volontaria di conversione di bond subordinati in azioni, che se vedesse adesioni pari al 100% risolverebbe praticamente da sola l’intero problema della ricapitalizzazione, visto che anche senza tener conto del Fresh 2008 le undici emissioni Lower Tier 1 e Lower Tier 2 valgono da sole 4,3 miliardi e sarebbero convertibili in oltre 4 miliardi, lasciando un miliardo da trovare tramite l’intervento di fondi hedge e altri investitori istituzionali (tra cui sicuramente il Tesoro, socio al 4%, e Axa, socia al 3,17% e dunque destinati a sottoscrivere almeno 350 milioni per non farsi diluire), anche per Unicredit si avvicina il momento decisivo.
La banca, per la quale la Bce ha fissato dal primo gennaio 2017 un requisito minimo del Cet1 “transitional” dell’8,7%, un Tier1 “transitional” del 10,25% e un Total capital “transitional” del 12,25%, in tutti e tre i casi livelli già superati alla data dello scorso 30 settembre, presenterà domani il nuovo piano industriale e le sue esigenze patrimoniali, collegate alla prevista “pulizia di bilancio” che dovrebbe vedere una maxi cartolarizzazione da 15-20 miliardi di euro di Npl.
L’amministratore delegato, Jean-Pierre Mustier, arrivato ai vertici di Unicredit cinque mesi fa, ha già messo in carniere la cessione del 50,1% di Bank Pekao per circa 8,5 miliardi di euro, del 100% di Pioneer Assset Management per oltre 3,5 miliardi (più 315 milioni di dividendo straordinario, per complessivi 3,9 miliardi circa) e del 30% di FinecoBank 880 milioni.
In tutto Mustier ha dunque già raccolto 13,28 miliardi di euro, a questi dovrebbero sommarsi altri capitali compresi tra i 7 (secondo gli analisti di Kepler-Cheuvreux) e i 13 miliardi (secondo Banca Imi) da qui alla prossima primavera, portando tra i 20 e i 26 miliardi di euro i capitali raccolti in meno di un anno a fronte dei 15,5 miliardi circa di capitalizzazione del titolo.
Come dire che l’Unicredit che chiuderà il bilancio 2017 sarà una banca profondamente diversa da quello che ha chiuso la prima semestrale 2016, anche perché l’attesa è per una ulteriore “cura dimagrante” che potrebbe tradursi in altri 7.800 esuberi (pari al 7,5% degli attuali dipendenti del gruppo), sempre secondo gli esperti di Kepler Cheuvreux. Ma non solo.
Che la trasformazione della “foresta pietrificata” passi per ridefinizione di perimetri d’attività e un’ulteriore riduzione dei posti di lavoro del settore è del resto certo, basti vedere cosa sta succedendo anche ad altre banche come Ubi Banca, che a giorni dovrebbe rilevare tre delle quattro “good bank” dal Fondo di Risoluzione (dopo che il fondo stesso le avrà ricapitalizzate per 250 milioni e che il fondo Atlante le avrà “alleggerite” di quasi 2,3 miliardi di Npl) per poi aumentare a sua volta il capitale di 500 milioni per alzare i coefficienti patrimoniali del gruppo e che intanto ha trovato l’accordo coi sindacati per i primi 600 esuberi su base volontaria a fronte di 300 assunzioni nel 2017 (mentre resta da trovare l’accordo per successive 700 uscite).
Oltre a questo, Unicredit, Ubi Banca, Mps (che è un istituto che è tornato a fare utili a livello operativo, dunque fondamentalmente sano), Bpm-Banco Popolare, ma anche Bper, Banca Carige, Intesa Sanpaolo e tutte le altre banche grandi, medie e piccole, dovranno sciogliere i dubbi riguardo al modello di business che intendono perseguire: quello disegnato dalla riforma Amato degli anni 80 è ormai tramontato, occorre dunque superarlo ed auspicabilmente introdurre una maggiore varietà di opzioni per i clienti anziché riproporre l’errore di avere 300 banche-fotocopia operanti in Italia.
Così l’attesa per il modello di business che Mustier vorrà proporre è molto alta, perché potrebbe essere, finalmente, un segnale di apertura al cambiamento di cui l’economia italiana ha disperatamente bisogno. O l’ennesimo tentativo di rinviare la soluzione del problema continuando a dare calci al barattolo, e sarebbe un errore gravissimo.