Sarà naturalmente un caso o semplicemente un fatto di “sensibilità politica” e di attenzione alle reazioni suscitate, sta di fatto che il ministro del Lavoro e delle pari opportunità, Elsa Fornero, il giorno dopo aver “rotto il tabù” relativo a una possibile riforma dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori è tornata sui suoi passi, con precisazioni che sembrano allineate alle osservazioni che mi ero permesso di avanzare nel mio precedente articolo per Fanpage.it. In particolare la Fornero ha sottolineato che il governo “non vuole precarizzare nessuno”, cosa che sembrava abbastanza chiaro fin da ieri in verità (semmai mi chiedevo a chi potesse giovare uno scambio tra il possibile ma non certo calo del precariato giovanile e la sicura diminuzione delle tutele o dei privilegi, a seconda del metro di giudizi, dei lavoratori dipendenti delle grandi imprese e delle banche), aggiungendo che “bisognerebbe riuscire ad aumentare i salari perché sono bassi e non è cosa che ci sfugge. Conosciamo il divario nella distribuzione dei redditi che è cresciuto negli ultimi 15-20 anni. La mia sensibilità è totale, dopodiché le cose bisogna cambiarle” e, aggiungo io, per cambiarle bisogna essere almeno in due se non in tre (ossia governo, parlamento e parti sociali).
Il tema del costo del lavoro da sempre è al centro delle polemiche tra aziende e sindacati, ma è davvero un punto discriminante per la “nuova” economia italiana? Secondo gli ultimi dati Istat (al terzo trimestre 2011) il costo del lavoro (ossia la somma delle retribuzioni lorde e degli oneri sociali) il costo del lavoro mostra una crescita tendenziale su base annua del 2,3% nell’industria e dell’1,1% nei servizi, ampiamente inferiore al tasso tendenziale di inflazione (+3,4% alla fine di settembre), il che vuol dire che la sua incidenza reale su fatturato e utili aziendali è in calo. Del resto già oggi il peso del costo del lavoro è attorno al 7% del fatturato per Fiat, a poco più del 13% per Telecom Italia e per Tod’s, a meno del 5% per Eni: insomma, se è vero che le retribuzioni che arrivano in tasca ai lavoratori sono basse, se è evidente che già non reggono il passo con l’inflazione e se l’incidenza del costo del lavoro (su cui incidono anche i contributi previdenziali e assistenziali) è ormai modesta per la maggior parte delle aziende, di cosa stiamo discutendo?
Forse il ministro sta auspicando un ulteriore calo del cuneo fiscale, direzione in cui il governo ha mostrato di volersi muovere già ora prevedendo un innalzamento del tetto del costo del lavoro che l’impresa può dedurre dall’Irap che passa da 4.600 euro a 10.600 annui (da 9.200 euro a 15.200 euro nel caso delle imprese del Sud) per ogni lavoratrice o dipendente under 35 che goda di un lavoro a tempo determinato (quindi i “precari” che potrebbero forse beneficiare di qualche chance occupazionale in più in cambio di minori tutele per i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, fatto salvo le obiezioni che già avanzavo ieri). Oppure sta auspicando che gli imprenditori italiani “crescano” non solo in termini patrimoniali/dimensionali, così da reggere la concorrenza estera, ma anche e soprattutto in termini culturali, visto che competere nell’attuale scenario mondiale significa, specie per un paese povero di materie prime ed ormai fuori da molti settori maturi dalla chimica all’industria pesante come l’Italia, investire in innovazione, in nuovi prodotti e servizi, in una migliore “user experience”. Tutte cosette che non si ottengono piallando il più possibile il costo del lavoro secondo il “modello cinese” che purtroppo molte piccole e medie aziende stanno adottando da anni per cercare di sopravvivere in settori come l’abbigliamento o l’arredamento in cui i grandi gruppi per conservare i propri margini di guadagno (a loro volta necessari per poter investire in nuovi prodotti e rimanere competitivi rispetto ai concorrenti esteri) delegano la produzione quasi sempre a contoterzisti i quali la subaffittano ad aziende ancora più piccole e in gran parte totalmente o parzialmente legate al lavoro nero o comunque non rispettoso di tutte le leggi e tutele per i propri dipendenti (per non parlare dei rapporti col fisco).
Allora assieme a un quadro prospettico di lungo periodo (vogliamo chiamarlo un “contratto per lo sviluppo”?), sarebbe opportuno che il ministro Fornero parlasse col suo collega Corrado Passera e entrambi col premier Mario Monti (cui fa capo ad interim il ministero dell’Economia e finanza) e si trovasse un modo per far anzitutto valere per tutte le aziende operanti in Italia le stesse regole, poi che le regole siano meno burocratiche e il cuneo fiscale meno ampio possibile, così da rimuovere ostacoli alla competitività delle nostre aziende. Ma soprattutto occorrerebbe che gli imprenditori italiani capissero una volta per tutte che non è solo “filosofia” ma condizione imprescindibile per rimanere sul mercato anche in futuro il non voler competere solo sul terreno del prezzo (e quindi dei costi di produzione e quindi del costo del lavoro), ma anche sulla qualità (non solo a parole ma in rapporto al prezzo del prodotto o servizio per l’acquirente finale), sulle garanzie, sui servizi d’assistenza e sul grado di innovazione di ogni prodotto o servizio che voglia aspirare a trovare un proprio mercato grande o piccolo. Anni fa in America uscì un libro che fece un certo successo tra i cultori delal letteratura di management, "Una passione per l'eccellenza", sarebbe bello poter vedere un giorno un simile volume nei best seller italiani. Del resto si sostiene spesso che l'Italia è patria del "bello" e ricca di eccellenze: sarebbe ora si imparasse a valorizzarle e a usarle al meglio, a partire da quelle umane.