Così francamente non va. Non è né equo socialmente né utile per favorire la ripresa economica italiana aver introdotto un “bonus Irpef” di 80 euro distribuito unicamente a chi già gode di un reddito da lavoro dipendente (salvo doverlo poi restituire se, ex post, si scopre che il reddito complessivo del percettore ha ecceduto i 26 mila euro annui) ma non interessa minimamente chi non ha reddito, perché non ha lavoro (o il lavoro ce l’ha ma in nero, o come lavoratore autonomo, ossia uno dei 4 milioni di partite Iva frutto in gran parte di anni di continuo ricorso all’outsourcing da parte delle aziende italiane), o ha un reddito inferiore agli 8 mila euro annui (perché precario, ad esempio). Tanto meno è socialmente equo ed è del tutto da dimostrare che potrà mai essere utile a favorire un qualche tipo di crescita ipotizzare una “riduzione delle imposte” che si basi sull’annunciato taglio di Imu e Tasi sulla prima casa.
Anzitutto perché non è chiaro se si tratterà di autentica riduzione del carico fiscale, cosa che richiederebbe una riduzione delle entrate fiscali che gli impegni sottoscritti col fiscal compact dall’Italia rendono a dir poco improbabile, o se lo “sconto” (che in verità come ha già notato Nomisma non potrà avere un impatto significativo, limitandosi all’equivalente di 17 euro medi mensili per due terzi delle famiglie italiane) non sarà compensato da rincari di altre imposte o accise, lasciando di fatto inalterato il prelievo fiscale implicito che ogni famiglia italiana subisce. Poi perché anche in questo caso si concede un sia pur simbolico sconto a chi ha già un asset patrimoniale (la casa), che sebbene ormai ampiamente diffuso non è tuttavia posseduto da tutte le famiglie italiane ma solo dal 70% di esse (il 30% delle famiglie resterebbe dunque nuovamente escluso).
Ultimo ma non meno importante: Imu e Tasi costituiscono la principale entrata fiscale dei comuni italiani, unico concreto elemento di quell’autonomia fiscale che a parole in tanti invocano salvo dimenticarsene per motivi elettorali un attimo dopo per gridare in coro “basta tasse sulla casa”. Anche tralasciando questo “piccolo” particolare, che in un’Italia dove un numero crescente di comuni è già in dissesto o rischia di finirci, con tutto quello che ciò comporta in termini di servizi ai cittadini (e di costo degli stessi), immaginiamo che siate una coppia di trentenni, magari ancora in una situazione di precariato lavorativo che vi impedisce di fatto di accedere ad un mutuo per acquistare la vostra abitazione.
Verosimilmente avrete un reddito modesto, quasi sempre come lavoratori autonomi (o dipendenti ma con contratti a tempo determinato che magari non si succedono senza interruzione di continuità), non avrete diritto al bonus Irpef e non vedrete alcuno sconto di Imu e Tasi perché voi la “prima casa” dovete ancora riuscire a comprarvela. Vi pare una manovra equa e tale da stimolarvi ad aver fiducia nelle vostre sorti magnifiche “e progressive”, così che aumentiate i vostri consumi stabilmente e sosteniate la ripresa di un’economia prostrata da anni di recessione indotta da una perdita di competitività delle aziende (che da questa manovra fiscale restano totalmente escluse) e accentuata da manovre di austerity che hanno penalizzato la domanda interna?
Improbabile: ma allora come si potrebbe fare una manovra fiscale nel senso dell’equità e della crescita? Non è poi così difficile, volendo: basterebbe ridurre le tasse sul reddito da lavoro (Irpef) e sugli investimenti di capitale (Irap). E’ in verità quello che da tempo la “cattiva” Europa ci chiede, proponendo una riduzione dell’imposizione sul lavoro che sia bilanciata da incrementi dell’Iva e dell’imposta sugli immobili, una ricetta che abbiamo finora applicato a metà, aumentando l’Iva e l’imposta sugli immobili ma “scordandoci” di tagliare le tasse sull’Irpef e inventandoci un “bonus” che ingessa ogni anno 10 miliardi di euro del bilancio pubblico (destinato a salire oltre i 13 miliardi se l’abolizione di Imu e Tasi per la prima casa si tradurrà da un annuncio a un provvedimento legislativo) coi quali, come già spiegato, si potrebbe rimodulare, riducendole, le aliquote fiscali per i redditi degli scaglioni inferiori.