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Opinioni

Un puzzle da ricomporre

Negli Usa i mercati festeggiano dati macro deboli perchè indurranno la Fed a mantenere più a lungo del previsto le misure di sostegno monetario “straordinarie”, in Francia si litiga sulla eccessiva forza dell’euro, in Italia ci si lamente del sistema del credito. Ma prima o poi dovremo tutti tornare a fare ciascuno il proprio lavoro al meglio (e per fortuna qualche timido segnale lo si nota)…
A cura di Luca Spoldi
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Pezzi di puzzle da ricomporre con cura: il dato odierno dei non farm payrolls (i posti di lavoro non agricoli) di settembre negli Stati Uniti, primo dato significativo da quando gli uffici pubblici sono stati riaperti e dunque molto atteso dai mercati finanziari, ha visto la creazione di 148 mila nuovi posti di lavoro, dopo i 193 mila posti (dato rivisto al rialzo) creati in agosto, rimanendo ampiamente sotto le previsioni (consensus: 180 mila nuovi posti di lavoro), ma Wall Street festeggia (sia per quanto riguarda gli indici azionari sia per le quotazioni dei bond) e non certo perché il tasso di disoccupazione sia calato al 7,2%, il minimo dal novembre 2008, quanto perché, in vista anche dell’impatto negativo che avranno sul quarto trimestre del’anno i 16 giorni di “government shutdown” registrati in ottobre, la maggioranza di analisti e operatori è sempre più convinta che la Federal Reserve manterrà invariata la propria politica monetaria espansiva (fatta di 85 miliardi di bond acquistati sul mercato ogni mese e tassi virtualmente pari a zero sul dollaro) almeno sino al marzo del prossimo anno per quanto riguarda gli acquisti di bond e molto più in là per eventuali primi, timidi, rialzi dei tassi.

A naso parrebbe che siamo di fronte a mercati pericolosamente assuefatti alla droga monetaria al punto di non volerne più fare a meno e quasi preferire gli stimoli alla crescita vera e propria, tanto che qualcuno commenta che misure nate come provvisorie e d’emergenza rischiano seriamente di trasformarsi in definitive (la cosa vi suona forse familiare?). Dall’altra parte dell’oceano Atlantico il ministro francese all’Industria, Arnaud Montebourg, spiega in un’intervista sul quotidiano Le Parisien che la Bce deve trovare il modo di “aggiustare” il tasso di cambio euro/dollaro (che nel frattempo viaggia sui massimi dal novembre dello scorso anno attorno a 1,374 proprio per l’indebolimento del biglietto verde come conseguenza della convinzione di cui sopra relativa alla politica monetaria della Fed), perché “un euro così è troppo caro, troppo forte e un poco troppo tedesco” (battuta buona per strappare applausi nei bistrot parigini almeno quanto nei bar italiani, un po' meno a Washington, probabilmente) .

Secondo il ministro un calo dell’euro/dollaro del 10% incrementerebbe la ricchezza nazionale francese dell’1,2%, creerebbe 120 mila posti di lavoro, ridurrebbe il deficit di bilancio di 12 miliardi di euro (mentre un calo del 20% creerebbe 300 mila posti di lavoro e ridurrebbe di un terzo il deficit, aggiunge Montebourg). A naso si tratta di pie intenzioni o meglio di un libro dei sogni (sul quale non mi pare che la stampa francese stia provando a fare un fact-checking migliore di quello che fa, o meglio non fa, la stampa italiana) ma va ricordato che la Francia a fine agosto registrava una disoccupazione dell’11%, che le stime della Banca di Francia parlano di un Pil che sarebbe cresciuto appena dello 0,1% nel terzo trimestre e che la fiducia delle imprese e dei consumatori resta bassa e in calo, mentre gruppi come Psa Peugeot Citroen hanno annunciato chiusure di stabilimenti in Francia e paiono aver avviato colloqui con il partner cinese Dongfeng e con lo stato francese per un ingresso di entrambi nel proprio capitale (la cosa vi suona nuovamente familiare?).

E in Italia? Da noi è il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, a segnalare come nei primi nove mesi dell’anno il volume di credito erogato dal sistema bancario (che come ricordavo ieri ha i suoi problemi) a favore delle imprese sia calato del 4,6%, mentre il tasso medio di interesse applicato ai nuovi prestiti di ammontare inferiore al milione di euro è risultato pari al 4,5%, vale a dire oltre l’1,6% più elevato rispetto alle condizioni medie applicate su finanziamenti di importo analogo in Germania e Francia. Per questo Vegas, che forse ha letto qualche mio precedente articolo, auspica che si individuino forme di finanziamento “alternative”, dalla quotazione in borsa alle operazioni di venture capital, dal crowdfunding ai minibond. Sarò prevenuto ma anche in questo caso mi pare, allo stato, più un elenco di pie intenzioni (come quelle anche oggi snocciolate in Parlamento dal premier Enrico Letta) che una “road map” concreta in grado di far ripartire la crescita.

Non che non ci siano spiragli, in verità: ieri mi ha colpito (positivamente) la notizia che Vertis Venture, fondo di venture capital di Vertis Sgr, società d’investimento partenopea guidata da Amedeo Giurazza (che conosco bene essendo egli stato socio e amministratore delegato di Borsaconsult Sim per la quale ho lavorato anni fa come gestore patrimoniale a Napoli), insieme ad un gruppo di business angel tra cui WithFouders, holding di partecipazioni privata specializzata in investimenti “seed” (start up ancora senza fatturato) guidata da Giulio Valiante, ha erogato 1,2 milioni di euro di finanziamenti a Chef Dovunque, startup lanciata da Antonio Ranaldo che seleziona ingredienti artigianali e biologici per primi piatti della cucina italiana, confezionandoli e distribuendoli in kit predosati. “Quello in Chef Dovunque è il nostro primo investimento nel food” ha spiegato al riguardo Giurazza, aggiungendo di credere “molto in questo progetto imprenditoriale, perché nasce da un’idea tanto semplice quanto innovativa e perché ha importanti prospettive di crescita, in Italia e soprattutto all’estero”.

Questa è certamente cosa buona e giusta perché occorre sempre più tornare a fare ciascuno il proprio mestiere bene: analizzare bene i dati facendo un continuo fact-checking e non limitandosi a prendere per buone dichiarazioni e pie intenzioni, decidere chi finanziare in base alle prospettive di successo di un’impresa più che alla sua nazionalità o alla “vicinanza” della proprietà al sistema politico o ai “salotti buoni”, informare correttamente aziende, banche e contribuenti dei pro e dei contro di ogni alternativa così che ciascun attore del sistema economico (e politico) possa prendere le proprie decisioni nel modo più efficace possibile. Certo, è ancora poco (solo nelle negli ultimi giorni Banca Carige, Ubi Banca, Unicredit e Intesa Sanpaolo hanno raccolto sul mercato, emettendo nuovi bond, 3,5 miliardi di euro, per fare un banalissimo confronto) ma è da qui che si ricomincia, se si vuole. Ora serve che i vari pezzi del puzzle si incastrino opportunamente evitando di generare nuove tensioni sui mercati, che peraltro dovranno farsi una ragione della necessità, prima o poi, di uscire dalla lunga fase “terapeutica” gestita dalle banche centrali per tornare a una qualche “normalità”. Senza fretta e in parallelo a riforme politiche, come suggeriscono Mario Draghi e i suoi colleghi banchieri centrali.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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