Quanto pesa l’assenza di eredi, in un capitalismo ancora fortemente “familiare” come quello italiano (e troppo spesso incapace di crescere oltre le piccole-medie dimensioni e dotato di scarsi capitali), nel decretare le sorti di un’azienda anche solo in termini di controllo? Molto, se guardiamo alle ultime vicende che hanno portato sotto i riflettori alcuni dei più celebri marchi del “made in Italy”, puntualmente finiti in mani straniere. Erano senza eredi (a causa di una prematura scomparsa o di un disinteresse a portare avanti l’attività di famiglia) Pininfarina, Pomellato, Pernigotti (che avevano già ceduto nel 1995 l’azienda al gruppo Averna, che ora ha passato la mano ai turchi Toksoz), Portinaro (proprietari dei krumiri “rossi”, ceduti ai cinesi). Come erano senza eredi, quanto meno interessati e in grado di proseguire l’attività, Richard Ginori, Gucci, Sperlari e Gancia.
Fatto sta che come ho più volte ricordato esiste un’Italia che piace molto all’estero, un’Italia fatta di marchi di successo, di fascino, di qualità, che si contrappone all’immagine di un paese impantanato da oltre 15 anni nelle sabbie mobili di una decrescita infelicissima, di una politica incapace di mediare tra i mille interessi di parte, di un sistema creditizio che fatica a far giungere i capitali là dove sarebbero impiegati più proficuamente e continua invece ad assistere gli “amici di sempre”, le “grandi famiglie” del capitalismo tricolore così ricche di relazioni (e di patrimoni e rendite personali) ma troppe volte carenti di progetti, visioni imprenditoriali adeguate ai tempi correnti e all’evoluzione tecnologica e concorrenziale.
Si continua a parlare, spesso a vuoto, di riforme strutturali necessarie a smuovere la macchina pubblica, a snellirla, a riequilibrare i conti, ma poi ci si dimentica che a dover essere ristrutturato, aperto alla concorrenza, rinnovato e assistito da un’azione creditizia mirata, è anche e soprattutto il settore privato. Non è detto che la cessione di un marchio, per quanto famoso, sia sempre un male, purché la filiera resti intatta, le competenze vengano coltivate, i capitali ottenuti reinvestiti nel paese. Diversamente a finire all’estero non saranno solo icone del “made in Italy”, ma anche migliaia di posti di lavoro, finendo con l’impoverire ulteriormente lo scenario industriale italiano.
Sarebbe ora di parlarne nelle sedi opportune, sarebbe ora di riprendere il filo di una politica economica che in Italia manca da un paio di decenni almeno. Sarebbe ora che il Parlamento, ma anche i sindacati, le organizzazioni imprenditoriali, quelle degli artigiani e commercianti, smettessero di occuparsi solo ed esclusivamente del proprio orticello, delle proprie rendite, dei problemi di questo o quel singolo uomo politico, partito, impresa o associazione. E tornassero a pensare a come far ripartire questo paese, prima che lo stesso finisca venduto a pezzi al migliore offerente, senza alcuna contropartita o garanzia per i lavoratori (e quindi i contribuenti) italiani.
Iniziamo a pensare ora cosa deve restare pubblico e cosa può diventare privato (ieri ho lanciato la “provocazione” su Poste Italiane, in scia alla notizia della prossima privatizzazione di Royal Mail), iniziamo a definire quali contropartite dobbiamo richiedere ogni volta che qualche nostro grande gruppo (ieri Edison, Parmalat, Ducati, Avio, ma anche Bottega Veneta, Bulgari, oggi Loro Piana, Pernigotti, Dada, ceduta da Rcs agli egiziani di Orascom, a loro volta controllati dai russi di Vimpelcom, domani forse pezzi di Finmeccanica, di Fiat, di Alitalia) o centinaia di altri marchi piccoli e medi finirà in mano ad un acquirente estero. “E’ l’economia, bellezza”, verrebbe da dire, o se si vuole è la dura realtà: la globalizzazione sposta i capitali di tutto il mondo sugli asset che si ritiene più interessanti e che sono sul mercato. Non possiamo impedirlo, possiamo però prepararci, per una volta, a gestire al meglio questo processo di rinnovamento forse poco volontario ma assolutamente inevitabile.