Telecom Italia balza all’insù del 5,6% in borsa a Milano chiudendo a 1,147 euro, nel giorno dell’assemblea, cui ieri aveva anticipato che sarebbero stati legittimati a partecipare soci per il 55,6438% complessivo del capitale e che non ha raggiunto la maggioranza dei due terzi per approvare la conversione dei titoli di risparmio, pur votata dal 62,5% del capitale presente.
Vivendi, società che fa capo al finanziere francese Vincent Bolloré socia al 20,5% del capitale, si è infatti astenuta come previsto (stamane Banca Imi ricordava come il progetto di conversione non sarebbe andato in porto “se Vivendi con il suo 20,5% si astiene dal voto”), dato che la conversione avrebbe sì fatto incassare a Telecom Italia circa 572 milioni di euro.
Ma soprattutto avrebbe diluito sia Vivendi (destinata a scendere al 13%-14% post conversione) sia Xavier Niel (al momento “potenziale socio” al 15,3% tramite opzioni, attorno al 10% post conversione), oggi non presente in assemblea. Via libera, al contrario, all’integrazione del Cda da 13 a 17 membri, con l’ingresso nel board del Ceo di Vivendi, Arnaud De Puyfontaine, del Chief operating officer, Stephane Roussel, del direttore finanziario Hervé Philippe e dell’ex manager di Areva, Felicité Herzog.
Una mossa legittima da parte del primo socio di Telecom Italia che tuttavia mette in dubbio il raggiungimento di quel profilo da “public company” che sembrava essere l’obiettivo che si era dato il management del gruppo italiano, d’intesa col governo, dopo l’uscita sia della spagnola Telefonica sia dei soci finanziari italiani, sostituiti da investitori esteri come Jp Morgan (2,65% del capitale con diritto di voto più un altro 1,87% senza diritto di voto) e Bank of China (al 2,07%).
Che ci sia una divergenza di visione è parso evidente anche nel corso dell’assemblea, perché se il presidente Giuseppe Recchi aprendo i lavori assembleari aveva parlato della necessità di mantenere la “separazione tra le decisioni che riguardano gli azionisti e le decisioni che riguardano la gestione”, pur riconoscendo ai soci (e quindi a Vivendi) il diritto/dovere di indicare “quale riterrete il percorso migliore per il nostro gruppo”, De Puyfontaine nella sua replica ha sottolineato come occorra sì “lavorare in piena sintonia su obiettivi condivisi” ma che a Telecom serve “un azionariato stabile”.
“Crediamo nel potenziale di Telecom, per questo abbiamo deciso di investire crescere nell’azionariato” ha poi concluso il manager francese. Per Bolloré vittoria su tutta la linea, dunque, e con questo probabilmente da stasera su Telecom Italia sventola un altro tricolore più per l’apatia dei fondi e degli investitori in genere, che hanno disertato l’assise odierna, che per una reale convinzione che il finanziere francese possa avere la bacchetta magica in grado di risolvere tutti i problemi dell’ex monopolista telefonico italiano.
Se il vincitore dello scontro è evidente, anche gli sconfitti hanno un nome e un cognome: Fabio Gallia e Claudio Costamagna, due “big” della finanza che il premier Matteo Renzi ha voluto guida di Cassa depositi e prestiti (Cdp) e che pochi giorni fa erano stati visti a Roma assieme a Xavier Niel a colloquio dall’ex sindaco di Firenze, a sua volta tra gli sconfitti di questo giro. Doveva essere uno sbarramento “anti francese” che avrebbe visto in prima linea i gestori di fondi in caso di scontro, scontro che peraltro sino all’ultimo sembrava poter essere evitato grazie all’assegno che Bolloré avrebbe portato a casa per l’incomodo.
Ma De Puyfontaine ha definito insufficiente il valore di conversione delle azioni di risparmio Telecom Italia in titoli ordinari (9,5 centesimi per azione), che per l’amministratore delegato Marco Patuano di Telecom Italia, appariva invece “congruo e bilanciato dai vantaggi di lungo termine”, mentre i gestori non si sono fatti vedere, così il risultato è stato inevitabile. Un risultato che riporta anche in alto mare il progetto caro al governo (e a Patuano) di un’intesa con la stessa Cdp e Metroweb (che Cdp controlla tramite due fondi) per varare la nuova rete a banda ultralarga italiana.
Industrialmente non è però certo che vi sia realmente alcuna sinergia tra contenuti digitali (come quelli che controlla la stessa Vivendi) e infrastrutture su cui gli stessi vengono distribuiti (come l’eventuale nuova rete a banda ultralarga a marchio Telecom Italia-Metroweb). Al di là delle tesi delle opposte cordate viene il sospetto che non siano così rilevanti visto che nè Google, né Facebook, né Netflix, ossia i nuovi colossi multimediali mondiali, hanno finora cercato di conquistare gruppi telefonici, limitandosi ad utilizzarne le infrastrutture per trasmettere i propri contenuti.
Non sarà che per una volta l’interesse del paese sarà meglio tutelato dall’interesse di un privato, sia pure di passaporto estero, rispetto ad un possibile incrocio pubblico-privato che rischierebbe di servire solo a coprire qualche problema del passato (come l’acquisizione ad un prezzo eccessivo rispetto alla reale redditività di Metroweb)? A pensar male si fa peccato, ma a volte ci si becca, dicono e per chi voglia obiettare che ora il rischio è che a pagare siano i consumatori italiani, un utile memento: i consumatori si difendono aprendo i mercati alla concorrenza, non tutelando la nazionalità delle singole imprese, fatto salvo poche eccezioni “strategiche”.