Borse in punta di piedi oggi, con poco spazio per dati macro (che pure non sono mancati, come l’indice Zew che misura la fiducia nell’evolversi della ripresa in Germania calato bruscamente contro attese di mercato che indicavano una contrazione più lieve) e notizie societarie dato che l’attenzione degli operatori è rivolta, in Europa come negli Stati Uniti, alla riunione odierna della Federal Reseve che con tutta probabilità si concluderà con una modifica della “guidance” ossia del testo con cui la banca centrale americana indica i propri obiettivi di politica monetaria. Non si tratterà di nulla di epocale, ma il riferimento a tassi da mantenere “sugli attuali o più bassi livelli per un prolungato periodo di tempo”, presente ormai da mesi, potrebbe essere rimosso, segnalando ulteriormente, in vista anche della conclusione del programma di acquisto di titoli obbligazionari sul mercato, che l’epoca del “denaro facile” sta per finire.
Non subito, ben inteso, visto che se la Fed non comprerà altri bond si guarderà bene dal cedere gli oltre 4 mila miliardi di titoli che detiene in bilancio (e per reinvestire i dividendi dei quali proseguirà a sottoscrivere nuovi titoli per un lungo periodo di tempo) e che se modificherà la forma, per mantenersi un domani le mani più libere, non toccherà comunque i tassi (a zero) almeno fino a inizio 2015 (un primo rialzo di uno 0,25% è al momento atteso per la primavera del prossimo anno). Se nulla cambia nella sostanza perché i mercati sono così prudenti? Da un lato perché i mercati finanziari scontano in anticipo le previsioni sull’andamento futuro degli utili, che dipendono ovviamente anche dall’andamento del costo del denaro (il quale è a sua volta “pilotato” dal livello dei tassi ufficiali), dall’altro perché i movimenti di Wall Street hanno sempre imposto il ritmo ai mercati finanziari di tutto il resto del mondo, dall’Europa all’Asia.
Se per i mercati la prudenza è dunque giustificata, per l’italiano medio cambierà qualcosa in base a quanto scriverà nel suo comunicato ufficiale la Fed? E’ ben difficile. I problemi dell’economia italiana risiedono infatti in ben altri fattori che non l’andamento dei tassi d’interesse negli Stati Uniti. I tassi sull’euro, anzitutto, sono pilotati dalla Bce che a differenza della Fed deve ancora avviare il proprio programma di acquisto di Abs (titoli di credito cartolarizzati: un’emissione da 1,3 miliardi è stata collocata giusto oggi sul mercato europeo ed italiano da Unicredit Leasing e si è trattato della prima volta dall’esplosione della crisi del 2008, a riprova di quanto resti da fare prima di tornare ad avere un mercato liquido ed efficiente sul quale la stessa Bce possa operare).
La stessa Bce, che giovedì effettuerà la prima delle due Tltro (aste di liquidità a lungo termine “condizionata” all'erogazione di prestiti all'economia reale) previste per quest’anno (le stime sulle richieste di liquidità da parte delle banche sono tuttavia in continuo ribasso e questo non è un bene), continua a cercare di far arrivare credito alle imprese innaffiando di liquidità a basso costo gli istituti di credito europei e del Sud Europa in particolare. Il problema è che il cavallo portato all’acqua non sta bevendo, specie in Italia: non solo le banche utilizzano la liquidità a basso costo per rimpiazzare altre forme di finanziamento più onerose senza alcun sostanziale incremento del credito offerto a imprese e famiglie a livello complessivo europeo, ma anzi in Italia proseguono le manovre di riequilibrio dei conti.
Oggi ad esempio l’Abi ha reso noto che ad agosto i prestiti all’economia sono calati del 2,3% su base annua, leggermente meno del -2,5% segnato in luglio (e contro un picco negativo del -4,5% toccato nel novembre 2013), mentre quelli alle sole famiglie e imprese hanno segnato un calo su base annua dell’1,1% (dal -1,3% del mese precedente e dal -4,5% del novembre 2013), ottenendo il miglior risultato dal luglio 2012. L’ammontare complessivo dei prestiti alla clientela erogati dalle banche operanti in Italia, 1.818 miliardi di euro a fine agosto, rimane superiore all’ammontare complessivo della raccolta da clientela, 1.708 miliardi di euro e questo fa presupporre che se non cambierà lo scenario, la “stretta” sul credito proseguirà anche se attraverso un calo dei volumi più che un rialzo dei tassi (che anzi a fine agosto sono ancora calati, col tasso medio sul totale dei prestiti pari al 3,77% dal 3,81% il mese precedente e contro il 6,18% toccato a fine 2007 prima dell’esplodere della crisi).
Quanto andrà avanti la “stretta”? Se la variazione (negativa) dei prestiti continuerà a ridursi all’attuale velocità circa altri dieci mesi, quanto basta, se i depositi continueranno ad aumentare attorno al 3% annuo mese per mese, per vedere i prestiti ridursi tra i 1780 e i 1800 miliardi, a fronte di depositi in crescita sino ai 1750-1770 miliardi. A quel punto, con le banche che avranno superato anche l’Asset quality review della Bce (i cui risultati saranno annunciati entro fine ottobre) e con Mario Draghi che cercherà in tutti i modi di spingere le banche a far ripartire il credito acquistando crediti cartolarizzati, se le sofferenze smetteranno di aumentare forse qualcosa potrà ripartire.
Uno sviluppo per nulla scontato putroppo, visto che ancora in luglio secondo l’Abi le sofferenze sono invece salite a 172,3 miliardi, dai 170,3 di giugno, a livello lordo, ossia a 78,2 miliardi dai 77 miliardi precedenti a livello di sofferenze nette, ovvero a circa il 4,30% degli impieghi totali, dal 4,22% di fine giugno e allo 0,86% di prima dell’inizio della crisi. Ma è poi necessario il credito bancario per la ripresa? Purtroppo per l’Italia, paese che resta fin troppo “bancarizzato” e povero di canali di finanziamento alternativi per imprese e famiglie, sì. Per questo ho più volte indicato che in parallelo all'azione di politica monetaria della Bce occorrerebbe nel nostro paese una “rivoluzione culturale” che prevedesse anche un nuovo modello di credito (e di sviluppo) più favorevole agli investimenti privati.
Senza investimenti privati è infatti difficile poter sperare in una ripresa, tanto più a fronte di una spesa pubblica che si vuole continuare a tagliare, in parte per la convinzione (o se volete retorica) in base alla quale c’è ancora “grasso che cola” su questo fronte e molto si può fare per efficientare e ridurre la spesa stessa, in parte perché non ci sono alternative non volendosi o potendosi ridurre il prelievo fiscale a breve termine, in uno stato come l’attuale di commissariamento “de facto” cui in caso di sforamento dei parametri Ue rischierebbe di seguire un commissariamento vero e proprio da parte della “troika”. Come se ne esce? Sperando nella ripresa mondiale, certo, sapendo che però essa beneficerà maggiormente chi per primo ha voluto e saputo fare riforme per rendersi più attraente agli occhi degli investitori.
L’Italia, non a caso tra gli ultimi paesi destinatari di flussi di investimenti privati dall’estero, non ha voluto o saputo farlo negli ultimi 15 anni almeno, guarda caso il periodo in cui, indipendentemente dal fatto che al governo ci fosse il Centrodestra o il Centrosinistra, le tasse sono aumentate, la spesa pubblica pure, ma la ripresa è totalmente venuta meno. Fossi in Matteo Renzi più che gonfiare il petto e scagliare continuamente proclami mi metterei, con molta umiltà, al lavoro, anzitutto allontanando quanto prima dirigenti e rappresentanti politici e sindacali ormai “compromessi” da anni di malagestione della cosa pubblica. Poi varando in prima battuta una semplificazione della giungla di norme fiscali e a medio termine (ossia appena possibile) un alleggerimento del carico fiscale a partire da quello sul costo del lavoro e sulle imprese.
Occorrerà poi ridurre in modo ragionato e “chirurgico” la spesa (in teoria per fare questo basterebbe scegliere tra le opzioni presentate da Cottarelli, ma le dimissioni annunciate del commissario alla spending review non fanno sperare in null di positivo in tal senso) senza fare tagli lineari che poco giovano all’efficienza, nulla all’eguaglianza sociale e spesso pesano in termini negativi sulla crescita e puntando piuttosto ad una sempre maggiore apertura alla concorrenza di tutti i settori, pubblici o privati che siano gli interlocutori ed accettando, nel caso, di veder per 12, 24 o 36 mesi il deficit sforare gli obiettivi Ue avendo però avuto modo di confrontarsi con i partner europei, Germania in testa, presentando impegni (vincolanti) sottoscritti con le parti sociali in tema di revisione delle norme sul lavoro, sulla giustizia e sul funzionamento della pubblica amministrazione.
In questo modo chi fosse contrario a riforme “strutturali” dovrebbe venire allo scoperto per difendere le rendite di posizione di questo o quella categoria o lobby e sarebbe agevole convincere gli italiani dell’insostenibilità di simili battaglie di retroguardia. In teoria, almeno, visto che a molti di noi dispiace abbandonare le care vecchie abitudini, anche se ci stanno portando alla morte economica per asfissia.