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Opinioni

Tassi in calo sui titoli di stato, ma non c’è da festeggiare

I tassi fino a tre anni sui titoli di stato sono ormai attorno o sotto l’1%. Lo stesso tasso che le banche pagano alla Bce per ottenere prestiti. Sembra una bella notizia, ma non è detto che lo sia, anzi…
A cura di Luca Spoldi
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Non so se ci avete fatto caso, ma prima che telegiornali e quotidiani nazionali vi convincano che i mercati hanno così tanta fiducia nelle “progressive sorti” del governo Renzi e dell’Italia tutta da premiare ulteriormente i nostri titoli di stato consentendo un ulteriore calo dei rendimenti verso minimi storici o giù di lì, sarebbe il caso di fare un paio di considerazioni. Certamente, complice anche la situazione di persistente tensione in Ucraina (dopo che Germania e Stati Uniti hanno fatto sapere che non considereranno valido l’eventuale esito favorevole alla secessione della Crimea e sua successiva riannessione alla Russia che dovesse, come probabile, emergere dal referendum fissato per domenica prossima), gli investitori continuano a nicchiare all’idea di investire “hic et nunc” altri soldi in mercati azionari nel complesso saliti non poco negli ultimi 12, 24 e 36 mesi.

Piuttosto si preferisce indirizzare robusti flussi di liquidità, che resta sovrabbondante nel sistema con le banche centrali di Giappone e Stati Uniti che continuano a pomparne di nuova ogni mese e la Bce che si tiene pronta a farlo (dovesse l’inflazione ridursi ulteriormente mettendo a rischio quel poco di ripresa che si sta iniziando a vedere), verso i bond europei “periferici” europei, ossia i titoli italiani e italiani, ma anche gli irlandesi: oggi Dublino ha collocato 1 miliardo di euro del nuovo decennale scadenza marzo 2024 nella prima asta di questo tipo di titoli dal settembre 2010 ad oggi, con una domanda risultata pari a 2,9 volte l’offerta che ha fatto calare il rendimento al minimo storico del 2,967%. Non ci sono del resto molte alternative se volete provare a guadagnare qualche soldo senza correre soverchi rischi e la cosa fa bene agli stati indebitati come l’Italia che non riescono (o non vogliono) trovare il modo di ridurre il proprio indebitamento in rapporto al Pil.

Dopo le aste di questi ultimi due giorni, lo stato paga tra lo 0,592% per un Bot a 12 mesi all’1,12% annuo per un Bpt a 3 anni, salendo al 2,71% per i titoli a 7 anni, al 3,85% per la scadenza 2028 fino a toccare il 4,01% per il trentennale settembre 2037 (mentre sul mercato secondario il Btp decennale guida ha visto il rendimento calare stasera sul 3,41%). Un buon segno? Non necessariamente: un Btp triennale che renda poco sopra l’1% equivale di fatto al costo dei fondi forniti dalla Bce alle banche europee (ed in particolare spagnole e italiane) con le due Ltro a 3 anni del dicembre 2011 e del febbraio 2012 alle quali venne applicato un tasso dell’1% annuo. Se però come già le banche anche lo stato italiano non saprà utilizzare i capitali raccolti a tassi vicini ai minimi storici per far ripartire la ripresa, sarà servito a poco e la curva dei tassi italiani assomiglierà sempre più a un macabro “encefalogramma piatto” a testimonianza che il paziente è morto nonostante le (poco) amorevoli cure dei medici.

Al di là dei proclami purtroppo Matteo Renzi non sembra disporre di carte migliori di quelle del suo predecessore Enrico Letta: le banche, ad esempio, che avevano in cassa  a fine gennaio ancora 383 miliardi di titoli di stato italiano rispetto ai 387 abbondanti di un mese prima, troveranno sempre meno conveniente investire in titoli di stato, tanto più quei miliardi che la Bce ha concesso loro all’1% annuo e che vanno comunque restituiti tra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo. A pensar male si fa peccato, ma non pare un caso che dopo una prima ipotesi di innalzamento delle aliquote fiscali (dal 12,5% al 20%) anche sui titoli di stato, il governo abbia già fatto marcia indietro preannunciando un innalzamento (dal 20% al 26%) solo sulle altre “rendite finanziarie” (azioni, obbligazioni societarie, fondi comuni, certificati di deposito, conti correnti etc).

Le banche stesse, del resto, ancora in presenza di rapporti prestiti/depositi squilibrati, sono impegnate in un’opera di “pulizia” dei conti colossale sotto la “spinta” di Banca d’Italia e Bce (quando mancano i dati di Intesa Sanpaolo, cinque delle sei maggiori banche italiane, ossia Unicredit, Mps, Banco Popolare, Ubi Banca e Bpm, hanno svalutato crediti per quasi 20 miliardi) che probabilmente andrà avanti finché anche la banche di minori dimensioni, che mediamente hanno coperto finora i crediti deteriorati al 35%-40%, non si saranno portate sopra il 50% di copertura (Unicredit è già ora al 52%, Mps al 58,8%). Il che significa che almeno altri 120 miliardi spariranno con un tratto di penna da qui a qualche mese/anno dai bilanci bancari e dunque dal sistema economico italiano.

Come se ne esce? Trovando una soluzione alla crisi politica che ha diviso l’Europa tra paesi creditori e debitori e che anche un investitore miliardario come George Soros è tornato ieri a stigmatizzare. Per Soros l’Europa “potrebbe non sopravvivere a 25 anni di stagnazione” (nota personale: se anche l'Europa dovesse farcela non sopravviverebbe l'Italia, non a 25 ma a 5 ulteriori anni di stagnazione) diretta conseguenza della decisione di impegnare le banche più nello superamento degli stress test che non nel rifinanziamento dell’economia reale ed è dunque necessario procedere a una maggiore integrazione politica e risolvere una volta per tutte il problema bancario, “perché l’Europa è in ritardo rispetto al resto del mondo nel riorganizzare le sue banche”. Su questo tasto più che sullo “sforamento” unilaterale del 3% di deficit/Pil varrebbe la pena che il governo Renzi ragionasse rapidamente e prendesse una posizione forte, supportata dall’avvio di riforme realmente incisive. Altrimenti non ci sarà molto da festeggiare per l’ulteriore discesa dei tassi sul debito pubblico italiano che, ultimo ma non meno importante dettaglio, finiranno col deprimere le rivalutazioni dei nostri fondi pensione e dunque con l’impoverirci in futuro, se non si troverà il modo di far fruttare meglio il capitale accumulato.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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