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Spagna e Italia, mal comune mezzo gaudio? No davvero!

Il braccio di ferro tra mercati e governi di Spagna e Italia è alla fine iniziato: Roma cerca di mantenere le distanze, ma Madrid è tentata dal coinvolgerla per ridurre i costi politici ed economici di una richiesta di aiuti.
A cura di Luca Spoldi
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Mariano Rajoy

Si dice in Grecia: una faza, una raza. Ma qualche volta essere troppo simili non aiuta e di certo non aiuta l’Italia in questo momento essere percepita dai mercati finanziari “a rischio” quasi quanto la Spagna, se non la Grecia (paesi in cui tornano a scoppiare proteste di piazza in vista di ulteriori misure di austerity che già si preannunciano). Se per Atene nonostante i ripetuti aiuti il problema sembra rimanere quello di conciliare riforme fiscali, previdenziali ed economiche con un’economia che continua a crollare sotto il peso dell’austerity imposta dalla “troika” Ue-Bce-Fmi sotto la spinta dell’egemone tedesco, il premier spagnolo Mariano Rajoy sta cercando di prendere tempo il più possibile prima di capitolare.

Domani, intanto, il governo di Madrid varerà una finanziaria che si preannuncia da 39 miliardi tra tagli alla spesa sociale, ai sussidi di disoccupazione, alle assunzioni nel pubblico impieghi, alle pensioni (24 miliardi) e maggiori imposte (15 miliardi) di aumenti fiscali, mentre il giorno dopo dovrebbero arrivare i risultati della due diligence sul settore bancario spagnolo. Rajoy ha già messo le mani avanti dichiarando che “la Spagna è pronta a chiedere un nuovo salvataggio per il Paese, se i costi di finanziamento resteranno a lungo troppo alti”, ma proprio questo sembra aver portato al preannunciato (da molti gestori e analisti) braccio di ferro coi mercati, che stanno in queste ore cercando di “vedere” se il premier spagnolo bluffa o ha qualche carta in mano.

L’asso nella manica Rajoy non l’ha per ora calato: si dice che la Spagna chiederà “virtuosamente” molto meno dei 100 miliardi di euro di aiuti già promessi dalla Ue per la ristrutturazione del settore bancario, sul quale pesa peraltro un’esposizione al settore immobiliare da 330-340 miliardi destinati ad essere in gran parte “bruciati” dall’esplosione della bolla immobiliare (è di oggi la notizia, del resto, che Ulster Bank, controllata irlandese del gruppo Royal Bank of Scotland, ha accettato di vendere il suo portafoglio “Gemini” di proprietà immobiliari tra cui centinaia di appartamenti, negozi e persino un hotel applicando uno sconto del 70% rispetto ai prezzi di picco segnati nel 2007). Rajoy potrebbe chiedere meno dei 60 miliardi di euro finora previsti dal mercato (c’è chi dice ne chiederà 39-40), ma il problema non è finito lì.

La vera partita per la Spagna è riuscire a ridurre il differenziale di rendimento (lo “spread”) che deve offrire sui propri titoli di stato rispetto ai Bund per trovare acquirenti disposti a sottoscriverli. Ad oggi un decennale tedesco offre un rendimento nominale risibile (l’1,456%, meno della metà dell’inflazione attuale), un Btp italiano di pari durata il 5,21% (dopo essere riuscito brevemente a scendere sotto il 5% nelle scorse settimane) e un Bonos spagnolo il 6,064%. Per cercare di restringere lo spread Rajoy potrebbe dunque prendere tempo fino a trovarsi in compagnia dell’Italia: una richiesta contemporanea di intervento della Bce potrebbe secondo alcuni dare maggior potere contrattuale ai due paesi e di certo lo darebbe alla Spagna, che eviterebbe di essere additata come la “nuova Grecia”. Mal comune mezzo gaudio? Forse per la Spagna, di certo non per l’Italia.

Il Belpaese, infatti, è tra tutti i partner della Ue quello che nei prossimi anni, fino al 2015, dovrà rifinanziare quasi 200 miliardi di euro di titoli a breve termine ed altrettanti a lungo ogni anno, poco meno di quanto visto quest’anno ed è dunque destinato a rimanere più di tutti sotto la lente dei mercati. In particolare, secondo una proiezione degli analisti di Morgan Stanley, il Tesoro si troverebbe a fronteggiare il prossimo anno 355 miliardi di debito in scadenza e potrebbe dovere emettere 401 miliardi di nuovi titoli, mentre nel 2014 si salirebbe a 378 miliardi di titoli in scadenza e 417 miliardi di emissioni lorde per toccare nel 2015 407 miliardi di rimborsi e 443 miliardi di nuove emissioni lorde (si noti che da qui a fine anno a fronte di 389 miliardi di debito in scadenza l’aumento dei tassi dovrebbe portare il Tesoro a emettere 452 miliardi di euro di debito nonostante il buon andamento dei conti pubblici).

Se non altro per una volta sembra che i diretti interessati ne siano consapevoli, tanto che ancora oggi il ministro dell’Economia e Finanze, Vittorio Grilli, ha ribadito che non è allo studio alcun piano per richiedere l’intervento della Bce (intervento che richiederebbe di sottoscrivere nuove condizioni vincolanti, le quali a loro volta rischierebbero di far ulteriormente calare il Pil l’anno venturo e quello successivo e dunque renderebbero difficile rispettare i parametri di debito/Pil e deficit/Pil concordati in sede comunitaria). Come ormai sembra diffusa la consapevolezza che siano inutili e fuorvianti le letture “morali” sull’andamento di mercati da tempo totalmente disfunzionali anche se non soprattutto a causa dei continui interventi delle banche centrali. Quella svizzera, in particolare, secondo un’analisi di Standard & Poor’s ha comprato 80 miliardi di euro di debito dei paesi “core” di Eurolandia così da mantenere il rapporto di cambio con l’euro sopra la soglia minima di 1,20.

I maggiori beneficiari in questo caso sono stati in un primo momento la Germania (con conseguente crollo dei rendimenti sui Bund), poi la Francia (per tentare di sfruttare i maggiori rendimenti, a loro volta subito calati nonostante fondamentali macroeconomici in costante deterioramento), infine comprandosi corone svedesi e dollari australiani, valute “forti” ben oltre i propri meriti (o nonostante i propri demeriti, nel caso dell’Australia, che rischia più di altri di pagare a caro prezzo il rallentamento economico cinese). Per converso Spagna e Italia sono rimaste sotto pressione ancor più dei propri demeriti (che nel caso italiano si possono sintetizzare in una cifra, quella del debito pubblico complessivo: 1.967,5 miliardi di euro a fine luglio, sia pure in calo di 5,5 miliardi rispetto a fine giugno). Sarà meglio ricordarsene prima di provare nuovamente a gettare la croce sull’euro dei nostri guai, come qualche politico o finanche economista continua ad essere più che tentato dal fare.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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