Standard & Poor’s declassa nove paesi, fa perdere la “tripla A” a Francia e Austria, porta l’Italia a “BBB+”, a un passo dal baratro del “non investment grade” o “junk”, cartaccia e i mercati che fanno? Si inventano un rimbalzo favorito dall’assenza di Wall Street, oggi chiusa per la festività del Martin Luther King’s Day. Che poi i giornali nazional-popolari abbiano buon gioco a dipingere i mercati finanziari come un circolo di complottasti che trama alle spalle di paesi virtuosamente democratici (e ampiamente ignoranti in materia economico-finanziaria, ma che importa suvvia!) non stupisce più che tanto, eppure vale la pena di tentare di spiegare il perché del succedersi di tali eventi, che peraltro potrebbero cambiare già domani alla riapertura di Wall Street, anche perché come si prevedeva Standard & Poor’s ha deciso di tagliare il rating (finora “AAA”) anche dell’Efsf, il fondo “salva stati” europeo destinato a giugno a essere rimpiazzato dall’Esm (il meccanismo permanente europeo di stabilizzazione dei mercati).
Chiariamo subito: Standar & Poor’s fa il suo mestiere, così come Fitch e Moody’s e se è vero (e lo è indubbiamente) che è auspicabile un allargamento del mercato del rating finora in mano ad un oligopolio che decide il bello e il cattivo tempo (e in cui a volte non è chiaro chi controlla i controllori, problema peraltro già emerso all’epoca degli scandali finanziari di Enron e Worldom, piuttosto che dei fallimenti di Parmalat e Cirio, tutti casi in cui i rating o si sono rivelati “taroccati” dalle aziende interessate o non erano neppure stati richiesti per i bond emessi dalle medesime e distribuite con generosità dalle banche loro finanziatrici alla propria clientela) è invece perlomeno dubbio che il rating sovrano attribuito a questo o quel paese risponda a una qualche macchinazione occulta. Semmai è probabile che la diffusione capillare di strumenti derivati pensati apposta per non far apparire posizioni “scomode” nei bilanci pubblici e privati abbia contribuito a ritardare la percezione della gravità dei problemi.
Ma, secondo punto, la condotta delle autorità politiche europee è stata semplicemente scandalosa ed è la vera pietra angolare di questa crisi. Ogni paese vi ha contribuito, con governi che per anni hanno negato la crisi, truccato conti pubblici, sfruttato a favore delle proprie aziende squilibri di bilancia di pagamento che arricchivano alcuni (Germania e Olanda in testa) a spese di altri (tutto il Sud Europa), salvo gridare ex post che la colpa era delle “cicale europee” (cui come pusher le virtuose “formiche” del Nord Europa per anni avevano venduto le proprie merci accanto ai propri servizi di finanziamento). Il problema è che ogni paese continua ad affrontare tuttora una crisi sistemica, in cui è venuta meno la fiducia in un blocco continentale, solo dal punto di vista dei propri interessi/problemi nazionali, così facendo non trovando alcun accordo per quei meccanismi che, come chiede Standard & Poor’s, sono la sola via d’uscita nel breve termine rispetto a una politica di “rigore” fiscale che andava fatta in anni precedenti quando chi è stato al governo ha invece continuato a spendere per consolidare il proprio consenso elettorale. Farlo ora, auspicando a parole una cresciata che queste manovre vanno nei fatti a ridurre, più che un esercizio di “austerità” è un atto, scrive S&P’s, “autolesionistico”, perché “la domanda domestica cala in linea con i crescenti timori dei consumatori riguardo la sicurezza dell’occupazione ed i redditi disponibili, erodendo il gettito fiscale nazionale”.
E’ un cane che si morde la coda, insomma, un po’ come voler ridare improvvisamente flessibilità al mercato del lavoro eliminando di colpo ogni tutela per i lavoratori in cambio non di un impegno a effettuare investimenti ma della speranza che prima o poi qualcuno noti la novità. Si rischierebbe immediatamente un crollo dei consumi (e di conseguenza delle entrate fiscali) per il solo fatto che i lavoratori inizierebbero a trattenere una maggiore parte del proprio reddito a fronte di un futuro incerto (e per quanto questo in astratto possa essere un comportamento virtuoso, non di meno se non vi fossero garanzie di una transizione graduale i consumi cadrebbero e la crisi aumenterebbe d’intensità). Insomma, le agenzie di rating, con tutti i loro difetti primi tra tutti essere poche e agire in ritardo rivelandosi fortemente “pro-cicliche” (e quindi in questo caso col rischio di accentuare la crisi) segnalano che serve uno strumento, sia esso un fondo dotato di un patrimonio adeguato quale non può essere al momento l’Efsf o l’Esm (per quanto il ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schoeble continui a sostenere il contrario), sia una Bce senza gli attuali vincoli (che comunque non hanno impedito a Mario Draghi di fare quanto possibile per sostenere le banche, con maxi iniezioni di liquidità a tre anni a bassissimo costo e con acquisti di titoli di stato sul mercato).
La crisi (che lo stesso Draghi ha pubblicamente dichiarato oggi essere peggiorata e non migliorata da ottobre a oggi, ossia da quando la Germania ha provato a far digerire ai partner europei e ai mercati la “sua” virtuosa ricetta anticrisi, peraltro tentando di coinvolgere molto poco virtuosamente, ma in moo politicamente vantaggioso, i bondholder privati, ossia le banche, nella ristrutturazione del debito pubblico greco tentando di non dichiarare tale operazione per quella che è, un default) è una crisi di fiducia e la fiducia deve essere restaurata, ma poiché farlo con riforme strutturali, pur sacrosante, richiede un tempo troppo lungo per i mercati (basti vedere la levata di scudi, anche non del tutto priva di argomentazioni, da parte di ogni categoria interessata in Italia e in qualsiasi altro paese europeo), è necessario trovare una soluzione di compromesso che soddisfi i mercati il tempo necessario per vedere le riforme ottenere dei risultati concreti. Anche perché, se anche il “fiscal compact” che sogna Frau Angela Merkel fosse stato in vigore prima della crisi, non sarebbe probabilmente cambiata una virgola, visto che Spagna e Irlanda avevano conti in ordine e visto che l’Italia per converso un debito superiore al 100% del Pil ce l’ha da anni, non dallo scorso agosto quando i mercati “se ne sono accorti” mandando a casa in poche settimane Silvio Berlusconi, cheda parte sua in 20 anni di governo nulla ha fatto per risolvere i problemi che già esistevano all’epoca della sua “discesa in campo” e che ha lasciato intatti in eredità a Mario Monti.
Le agenzie di rating hanno insomma sfiduciato ancora una volta la politica europea tutta e in particolare la farraginosa governance europea, pensata per equilibrare col bilancino interessi nazionali più che per creare un’area realmente omogenea e forte in termini economici. Purtroppo per modificare questo stato di cose non basteranno pochi mesi (quelli che ci separano dalla probababile uscita di scena di Sarkozy e della Merkel) ma saranno necessari degli anni, anni in cui si dovrà modificare il profilo della spesa pubblica e degli investimenti privati, tutelare il risparmio, trovare il modo per sradicare l’evasione e ridare competitività alla macchina produttiva europea (ed italiana in particolare), il tutto evitando che i nostri creditori trovino asset migliori dei titoli di stato europei su cui investire. Se avrete voglia di leggermi ancora domani proverò a ragionare con voi sul perché ci si potrebbe e dovrebbe riuscire.