Le ultime parole famose: le tasse caleranno. E’ quello che si sentono ripetere da anni gli italiani, ma puntualmente non è vero e anche questa volta difficilmente il 2015 registrerà questo record, anzi. Secondo un comunicato del ministero dell’Economia e finanze, ad esempio, nei primi otto mesi dell’anno “le entrate tributarie erariali, accertate in base al criterio della competenza giuridica, ammontano a 272.253 milioni di euro, con un aumento del 2,2% (+5.880 milioni) rispetto allo stesso periodo del 2014”. Ottima notizia per le casse pubbliche, ma a meno che non si verifichi che il Pil italiano cresca del 2,2% nel 2015 (la nota di aggiornamento del Def da poco varata dal governo parla di un +0,9% quest’anno e di un +1,6% l’anno venturo), questo significa che il rapporto entrate tributarie su Pil, ossia la “pressione fiscale”, salirà ancora.
La nota aggiunge che “la crescita delle entrate tributarie, registrata nei primi otto mesi dell’anno, compensa ampiamente il venir meno del gettito dell’imposta sostitutiva sui maggiori valori delle quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia”, che aveva fruttato lo scorso anno 1.692 milioni di euro, “e dell’imposta sostitutiva sulla rivalutazione dei beni d’impresa e delle partecipazioni”, che aveva portato altri 236 milioni di euro nelle casse dell’erario (ma con versamenti previsti per il solo 2014). Così, “neutralizzando queste entrate straordinarie del 2014, le entrate tributarie erariali presentano una crescita tendenziale del +3,0% (+7.808 milioni di euro)” e quindi, per un confronto omogeneo, occorrerebbe che la crescita del Pil sia alemeno pari quest’anno al 3% o l’aumento della pressione fiscale sarà inciso nella pietra, come sarà.
Andando a vedere le singole entrate fiscali, le imposte dirette hanno raggiunto i 148,438 miliardi di euro, con una crescita del 3,6% (+5.222 milioni di euro) rispetto allo stesso periodo del 2014 (ma l’Irpef sale del 3,8%, con oltre 4 miliardi in più di un anno prima, grazie alla crescita delle ritenute di lavoro dipendente per 3.456 milioni di euro), mentre le imposte indirette sono sostanzialmente ferme a 123,815 miliardi e dunque aumentano “solo” di 658 milioni, ossia dello 0,5% (ma con un incremento dell’Iva del 3,1%, ossia di oltre 2,1 miliardi tutto effetto degli scambi interni e del meccanismo dello “split payment”, mentre cala il gettito da importazioni da paesi extra-Ue).
Sarà un fatto occasionale, dato che il premier italiano e il suoi ministri (qualsiasi sia il premier e qualsiasi siano i suoi ministri) da anni ribadiscono: la pressione fiscale scenderà? Non proprio: secondo dati pubblicati pochi giorni fa dall’Istat la pressione fiscale nel 2014 è salita al 43,6% dal 43,5% del 2013. Quisquilie e pinzillacchere, forse, ma come ha già fatto notare un economista come Mario Seminerio, il punto è che già la presunta “riduzione” della pressione fiscale di cui abbiamo ripetutamente sentito parlare in questi mesi da chi citava il “bonus Irpef” (o “bonus 80 euro”) come primo virtuoso esempio di tale riduzione è stata ottenuta a deficit, in presenza di coperture formali e per di più sovente non ricorrenti (come quelle ricordate anche oggi dalla nota dello stesso ministero dell’Economia e finanze) che dunque, in assenza di riforme strutturali realmente in grado di rilanciare la spesa e rimodulare la tassazione, ad esempio riducendo e rendendo più equo l’Irpef, andavano sostituite (e a quanto pare lo sono state) con ulteriori incrementi del gettito ottenuti in modo meno aleatorio.
Su tutto questo si inserisce ora il nuovo “mantra” del voler/dover ridurre la tassazione sulla casa, ipotesi che si muove in direzione diametralmente opposto a quanto ci chiede l’Europa e già è fatalmente facile prevedere come andrà a finire il prossimo anno (spoiler: la pressione fiscale non calerà neppure nel 2016, semmai alcuni “sconti” fiscali verranno finanziati a deficit se Bruxelles ci consentirà di spostare ancora di un anno i nostri impegni di bilancio). Tra l’altro visto che grazie al quantitative easing della Bce di Mario Draghi già l’Italia gode di un robusto “sconto” sugli interessi “marginali” che paga sul suo debito (a fine settembre l’ultima asta di Btp a 5 e 10 anni ha visto i titoli venire emessi a fronte di rendimenti lordi annui pari rispettivamente allo 0,71% e all’1,82%) e che però dato l’ammontare del debito (132,8% del Pil alla fine di quest’anno, secondo il governo destinato a calare al 131,4% a fine 2016) il beneficio è appena percepibile a livello di interesse medio sul debito complessivo, che sempre la nota di aggiornamento del Def 2015 ora vede pari al 4,3% a fine anno dal 4,7% dello scorso anno, per poi ridursi ulteriormente fino al 4% nel 2018, è difficile pensare che potranno esserci altri fattori che possano aiutarci.
D’altra parte proprio perché lo “sconto interessi” è ottenuto grazie esclusivamente alla Bce è probabile che una parte dell’avanzo primario (ossia delle maggiori entrate fiscali rispetto alle uscite fiscali), che il governo ha appena rivisto dall’1,7% all’1,6% quest’anno ma alzato dal 2% al 2,4% l’anno venturo (e dal 3% al 3,2% nel 2017) dovrà essere utilizzata non per ridurre la pressione fiscale, ma per ridurre il debito, come ha già chiesto lo stesso Draghi. Il che parrebbe pure una cosa sensata, ma si dovrebbe avere l’avvertenza di dire ai contribuenti italiani le cose come stanno.
Insomma: la pressione fiscale non sta diminuendo e non diminuirà nei prossimi anni. Semmai verrà spostata da alcune spalle ad altre e non è detto che il criterio seguito sia realmente quello dell’equità sociale o della valenza in termini di crescita potenziale che ciascuno “sconto” delle imposte, compensato da qualche altro aumento o, forse, da un taglio di qualche spesa (ma in quest’ultimo caso andrebbe ricordato che le uniche due voci significative nel bilancio pubblico restano la sanità e la previdenza), è in grado di avere.