Seduta iniziata sotto i migliori auspici ma finita poi in decisa lettera per il listino di Milano, che il giorno dopo la vittoria dei partiti pro-euro in Grecia vede l’indice Ftse Mib ridiscendere in area 13.009,63 (-2,85%). L’euforia dura poco anche sul mercato obbligazionario con nuove vendite su Bonos e Btp, col titolo decennale guida italiano che vede il rendimento risalire al 6,08% (15,5 punti base più di venerdì) e lo spread col Bund portarsi al 4,67% (18 punti base di allargamento), mentre al G20 che si è aperto oggi in Messico i “grandi” provano a mettere sotto pressione la Germania per arrivare a definire misure pro crescita e una minore enfasi sull’austerity.
Ipotesi che naturalmente a Berlino (che si guarda bene dal sottolineare i benefici che derivano alla sua economia dalla crisi dei “periferici”) suona come la minaccia di un nuovo rilassamento da parte dei governi del Sud Europa. Così la sensazione è che dopo il “non evento” delle elezioni politiche in Grecia, anche il G20 non partorirà (come al solito) alcuna reale novità ed il rischio che anche al prossimo consiglio europeo dei capi di governo in programma a fine mese si facciano molti discorsi e si concludano pochi fatti è più che concreto.
Ammettiamolo: non abbiamo bisogno di leggere decine di report che dicono che i problemi strutturali restano, che le elezioni vinte da partiti “pro-euro” eliminano il rischio di un “Dracmageddon” immediato ma non evitano il rischio che tra un anno si sia punto e a capo se, come sospettano gli uomini di Morgan Stanley, raggiunto o fortemente avvicinato il traguardo di un pareggio di bilancio primario il governo di Atene proverà nuovamente a usare l’arma del “moral hazard” minacciando nuovi default o l’uscita del paese dall’euro se non ci saranno ulteriori aiuti o ammorbidimenti delle condizioni (in termini di tassi e scadenza dei rimborsi come minimo, se non di percentuale di fondi “a perdere”) imposte al paese dalla “troika” Ue, Bce e Fmi.
Non abbiamo bisogno neppure di capire se ha ragione Citigroup che dice che in realtà l’uscita della Grecia dall’euro resta probabile al 50% o se hanno più fiuto gli uomini del Credit Suisse che non vanno oltre un 20% (assegnando alla completa disintegrazione dell’eurozona una probabilità residua del 10%), per capire che i problemi si risolvono solo affrontandoli con una visione “di sistema”. Altrimenti tanto vale andare ciascuno per la propria strada, avendo peraltro presente che questo comporta costi elevatissimi (che verrebbero subiti inevitabilmente da chi meno ha già oggi e dunque in primis da giovani e donne, dalle classi meno abbienti, dalle “periferie” ovunque si trovino) perché, semplicemente, rimpiangere “i bei tempi” in cui esistevano lire, dracme e pesetas non ha senso visto che viviamo nel 2012 e non nel 1982 e (incidentalmente) è cambiato tutto il mondo, non solo la moneta che si trova nei nostri portafogli.
Come finirà? Occorrerebbe avere una sfera di cristallo per capirlo in modo preciso quanto a tempi e costi (e ripartizione puntuale degli stessi), ma non occorre un grande sforzo di fantasia per capire quello che si sta delineando: la soluzione “finale”, l’unica ammessa dai mercati, è di natura politica e prevede la nascita se non degli Stati Uniti d’Europa di qualcosa che molto gli assomigli a livello fiscale e bancario. Poiché questo significherà cedere parti importanti delle singole sovranità nazionali (e convincere Italiani, Spagnoli e Greci da un lato a “stare ai patti” e Tedeschi, Olandesi e Finlandesi dall’altro a fidarsi), il tempo necessario per vedere questa soluzione pienamente in essere è verosimilmente nell’arco di questa generazione, tra 5 o più probabilmente 10 o anche 15 anni, come commentavano stamane gli uomini di Anima Sgr.
Nel frattempo che si fa? La pressione dei mercati, si è capito anche questo anche se pochi lo dicono apertamente, è voluta per “convincere” una classe politica europea ovunque rivelatasi inadeguata (con punte imbarazzanti di corruzione e inefficienza nei paesi del Sud Europa, ma non senza grossi limiti strategici e “visionari” nel Nord Europa) a cedere realmente il passo e non limitarsi a mettere dei governi tecnici al proprio posto salvo conservarsi il diritto di veto su ogni provvedimento teso a intaccarne privilegi e spazi di manovra nel pubblico come nel privato. Gli spread alti e il rischio di fallimenti a catena di banche e aziende servono insomma a indurre gli elettori a cambiare rappresentanti politici, visto che quelli votati finora di farsi da parte di propria volontà non hanno alcuna intenzione, né in Italia né altrove.
Il che non significa che la Banca centrale europea o le altre autorità monetarie mondiali lasceranno colare a picco realmente l’Europa: in un’economia globale persino per le “tigri” dei paesi emergenti sarebbe un colpo troppo duro da assorbire (per non dire per Giappone e Stati Uniti, tra l’altro indebitati come e più dell’Europa nel suo complesso e con una crescita che appare a sua volta strutturalmente in frenata). La Bce anzi tiene pronte nuove “armi non convenzionali” con cui tagliare le unghie alla speculazione se sarà il caso, pronta a trovar sponde presso la Federal Reserve, la Bank of England e la Bank of Japan come minimo (ma anche la Cina non rimarrà insensibile alla richiesta di puntare più sullo sviluppo della domanda interna che non delle esportazioni negli anni a venire).
Armi con le quali Mario Draghi “comprerà tempo” per consentire ai politici europei (attuali o futuri che siano) di varare la “nuova Europa” in grado di tornare ad essere un centro propulsivo per l’economa mondiale. A patto, notano alcuni, che i politici siano almeno in grado di dare rapidamente indicazioni circa la volontà di percorrere questa strada. E che nessuno provi a usare l’arma dei “moral hazard” con troppa frequenza ed enfasi. Perché va bene dare il tempo a tutti di fare i “compiti a casa”, banche, imprese o governi che siano. Ma la cultura “del furbo” deve ormai cedere il passo a quella della competenza, se non altro per meglio tutelare i propri legittimi interessi.