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Sorgenia finisce in mano alle banche: chi pagherà il conto?

Accordo al ribasso su Sorgenia: le banche convertiranno solo 400 milioni (e non i 600 auspicati dai De Benedetti), Cir e Verbund vedranno azzerate le proprie partecipazioni. Chi pagherà il conto finale di questo ennesimo fallimento imprenditoriale italiano?
A cura di Luca Spoldi
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Era nell’aria ormai da settimane a alla fine, puntuale, l’accordo è arrivato: con una nota diramata ieri sera Cir e Verbund, soci di Sorgenia (la holding dei De Benedetti ha il 53,1% del capitale, la società austriaca il 45,7%), hanno ufficializzato la sottoscrizione di un accordo “con gli istituti finanziatori della società energetica” funzionale alla ristrutturazione dell’indebitamento di quest’ultima. La vicenda dura da tempo: già a gennaio Sorgenia dichiarava pagamenti sospesi nei confronti degli istituti di credito era pari (incluse le scadenze di dicembre e gennaio) “pari a 60,7 milioni comprensivi di capitale, interessi e commissioni” su un indebitamento lordo per cassa di 1.863 milioni e per firma (garanzie emesse) di altri 304 milioni. Un debito (l’indebitamento finanziario netto era quantificato pari a 1.799,5 milioni di euro a fine 2013) troppo alto e troppo costoso per una società che nel 2013 ha registrato ricavi per 2.326 milioni di euro, in calo del 6,9% rispetto all’anno precedente “principalmente per la contrazione delle vendite nel comparto energia elettrica” ed il cui Ebitda pur “in leggera crescita rispetto al 2012” è risultato pari a 123,4 milioni di euro.

Alti debiti e bassi ricavi (e margini) hanno portato la società, che controlla tramite Energia Italiana (78% di proprietà di Sorgenia) il 50% dell’ex “genco” Tirreno Power (l’altro 50% è in mano ai francesi di GdF Suez), a sua volta abbondantemente indebitata, ad abbattere il valore delle proprie partecipazioni e chiedere alle banche finanziatrici, già lo scorso dicembre, “una moratoria di stand still (ossia il congelamento del pagamento degli interessi sul debito, ndr) a garanzia della piena operatività aziendale”. Le banche, che poi altro non sono se non Unicredit, Intesa Sanpaolo, Mps, Banco Popolare, Ubi Banca e Bpm, hanno dato tempo fino a fine luglio e cercato a quel punto di salvare il salvabile, chiedendo ai De Benedetti di fare la propria parte a fronte di una richiesta iniziale da parte di questi di alleggerire di 600 milioni il peso del debito. Va bene, è stata più o meno la proposta delle banche: noi rinunceremo a un terzo dei capitali incautamente affidativi, a patto che voi ricapitalizziate la società altrettanto.

La risposta dei De Benedetti è suonata all’incirca così: noi siamo soci al 50%, potremmo al massimo arrivare fino a 300 milioni (ma non ne abbiamo alcuna intenzione), gli altri dovrebbero metterli i nostri soci austriaci. I quali nel 2008 avevano già iniettato ulteriori 350 milioni nella società e sono nel frattempo in altre faccende affaccendati, per cui hanno gentilmente declinato, facendo sapere di essere pronti a passare la mano (la partecipazione in Sorgenia era già stata del resto svalutata a zero nel bilancio di Verbund). I mesi son passati, la cifra chiesta dalle banche ai De Benedetti, secondo le indiscrezioni apparse sulla stampa italiana, ha continuato a scendere (prima 150 milioni, poi 100) ogni istituto ha fatto i propri conti: Mps, la più esposta (“grazie” ai 603 milioni concessi in piena era Mussari, che peraltro salirebbero a 710 milioni se si tenesse conto anche dei prestiti concessi a Tirreno Power), Intesa Sanpaolo (371 milioni), Unicredit (180 milioni), Ubi Banca (180 milioni), Bpm (177 milioni), Banco popolare (157 milioni) e Mediobanca (143 milioni) hanno gradualmente passato i prestiti da “problematici” a “incagli”, ultimo gradino prima di essere dichiarati “sofferenze” ed ora si preparano ad una procedura “ex 182 bis” del debito Sorgenia che prevede tra l’altro un aumento di capitale di “soli” 400 milioni di euro.

Aumento a cui non parteciperanno né Verbund né, è questa la novità delle ultime settimane, Cir (che “festeggia” in borsa salendo del 4%), ma che “sarà interamente sottoscritto dalle banche finanziatrici attraverso la conversione di crediti nel capitale della società”. Salta dunque lo schema secondo cui le banche avrebbero dovuto mettere il doppio di quanto erano disposti a rischiare i De Benedetti e, di conseguenza, la possibilità per gli stessi (oltre che per Verbund) di mantenere una sia pure minima presenza nel capitale post ristrutturazione. E infatti la nota di ieri precisa: “Una volta perfezionata l’operazione, in particolare con la sottoscrizione dell’aumento di capitale da parte dei nuovi azionisti dopo l’omologa ex 182 bis” (che prevede il via libera a parte di almeno il 60% dei creditori, ndr), Cir e Verbund “non deterranno più azioni di Sorgenia”. Premio di consolazione: “E’ previsto che agli azionisti diretti Sorgenia Holding” (controllata da Cir) “e Verbund Ag venga riconosciuto un earn ‐ out”.

In particolare, spiega la nota, “in caso di distribuzioni e/o realizzi futuri, Sorgenia Holding e Verbund Ag riceveranno il 10% dell’importo ottenuto che ecceda il capitale sottoscritto dalle banche finanziatrici capitalizzato al 10% annuo”. Le banche devono dunque, ancora una volta, assumersi il rischio d’impresa e gestire la ristrutturazione di Sorgenia, che accanto a una riduzione della leva finanziaria, ossia del debito, punterà su un taglio dei costi ed un rilancio di ricavi e margini, il tutto passando verosimilmente per una Newco nella quale gli istituti dovrebbero essere presenti più o meno in proporzione alle rispettive esposizioni (anche se in qualche caso i numeri variano a seconda della società del gruppo Sorgenia che è stata finanziata). Secondo le ultime indiscrezioni circolate l’onore/onere di essere il “primo azionista” spetterebbe al Monte dei Paschi di Siena (che dovrebbe avere una quota attorno al 22% del capitale della Newco), seguito dappresso da Ubi Banca (attorno al 18%) e più a distanza da Banco popolare (11,5%), Unicredit (9,8%), Intesa Sanpaolo (9,7%), Bpm (9%) e Mediobanca (circa l’8,2%).

Il 12% rimanente verrebbe ugualmente ripartito tra i 14 istituti meno esposti, come Banca Carige (risultavano 41 milioni di esposizione, dovrebbe avere una quota del 2,2%), Banca popolare di Vicenza (a fronte di 20 di prestiti potrebbe avere circa l’1,1%) e Banca Etruria (8 milioni concessi valgono poco meno di mezzo punto percentuale di partecipazione). Curiosamente, ma forse no, molti di questi istituti sono nel frattempo finiti agli onori delle cronache finanziarie per una serie di “problemucci”, da Monte dei Paschi di Siena a Banca Carige, da Banca Etruria a Ubi Banca, ed hanno dovuto varare una serie di ricapitalizzazioni per essere sicuri di superare l’Asset quality review e gli stress test che in queste settimane la Bce sta effettuando (i risultati saranno resi noti all’inizio del prossimo autunno). Disse una volta l’economista John Maynard Keynes: “If you owe your bank a hundred pounds, you have a problem. But if you owe a million, it has” (ossia: “Se dovete mille sterline alla vostra banca avete un problema. Ma se le dovete un milione il problema ce l’ha lei”). Immaginate a chi saranno riaddebitati i costi di questo ennesimo disastro? Non rispondete, è una domanda retorica.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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