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Opinioni

Solidità o crescita? Qualcuno deve correre il rischio

Che le maggiori banche mondiali debbano essere più solide e redditizie per evitare nuove crisi finanziarie mondiali non ci piove. Ma se nessuno si prenderà qualche rischio la crescita resterà un miraggio e aziende come l’Ilva rischieranno la chiusura.
A cura di Luca Spoldi
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Storia di ordinaria follia in un’Italia alla deriva che scatena appetiti sempre più evidenti ma che non sa immaginare un futuro che non sia quello della repressione fiscale dettata da altri. Mentre a livello internazionale si dibatte su quali conseguenze potrebbero provocare i nuovi parametri di liquidità che l’Fsb (Financial stability board, l’ente a cui spetta individuare i criteri di stabilità finanziaria per evitare il ripetersi di situazioni come nel 2008-2009 in cui alcune grandi banche e istituzioni finanziarie dovettero essere salvate a spese dei contribuenti perché “troppo grandi per fallire”), con stime di una necessità di ulteriori ricapitalizzazioni (o in alternativa cessione di asset patrimoniali) che variano da 870 miliardi di dollari (secondo gli esperti di AllianceBernstein) a 237 miliardi (secondo i più ottimistici calcoli di Barclays), in Italia l’Ilva rischia l’ennesima crisi, proprio per la possibile insufficienza di liquidità, nonostante l’azienda sembri piacere a tre o più potenziali acquirenti.

Solidità contro crescita? Credito contro svendita? Andiamo con ordine. Il problema della (scarsa) solidità patrimoniale delle banche emerse in modo prepotente nella crisi finanziaria mondiale del 2008-2009, quella, per intenderci, seguita al fallimento della banca d’affari Bear Stearns (primo segnale d’allarme scattato nel maggio del 2008), uno dei maggiori emittenti statunitensi di Abs (Asset backed securities, ossia obbligazioni cartolarizzate, lo stesso tipo di carta finanziaria che ora Mario Draghi vorrebbe far acquistare, tra mille cautele e Germania permettendo, alla Bce per un importo massimo di 200 miliardi di euro, così da alleggerire le banche europee di pari importo e generare, assieme all’acquisto di 200 miliardi di covered bond, di un effetto complessivo pari a circa mille miliardi di potenziali crediti) e di Lehman Brothers, fallita pochi mesi dopo (nel settembre 2008) in un crack da 639 miliardi di dollari che ha prodotto un terremoto a catena nell’industria finanziaria mondiale portando ad interventi pubblici il cui importo complessivo è stato stimato in non meno di 18 mila miliardi di dollari.

Che le banche debbano essere solide (e redditizie) è, o dovrebbe essere, pacifico. Che l’unico modo di essere assolutamente solidi sia di non correre rischi è altrettanto evidente, ma si tratta di un’ipotesi limite perché andrebbe ad azzerare la redditività di qualsiasi istituto e d’altra parte finirebbe col congelare completamente l’economia mondiale (facendoci nella migliore delle ipotesi piombare in situazioni di economia rigidamente “programmate” e “statalizzate”, visto che gli unici prestatori di ultima istanza potrebbero a quel punto essere le banche centrali, gli organismi sovranazionali come la Banca Mondiale, la Banca Europea di Ricostruzione e Sviluppo, i vari fondi “salva stato” o direttamente i governi nazionali). La soluzione ideale si deve dunque situare a mezza via, ma cosa significa nel concreto? Se passasse la linea ultraprudente di imporre alle banche di mantenere un 20% del proprio capitale liquido (o in asset assimilabili, ad esempio titoli di stato a breve scadenza o di emittenti “tripla A”), alle maggiori banche mondiali servirebbero appunto 870 miliardi, visto che gli asset “ponderati per il rischio” nascosti nelle pieghe dei bilanci bancari si stima valgano 4.350 miliardi di dollari.

Una cifra che probabilmente è destinata a calare nei prossimi anni, ma che richiederà comunque tempo per essere ridotta tramite cessioni e svalutazioni. Nel frattempo il rischio continuerà a pesare sui bilanci delle banche, che se anche solo volessero coprire circa il 5,5% dei propri asset “a rischio” dovrebbero appunto rafforzare il capitale per almeno 237 miliardi di dollari. Come? Con ulteriori aumenti di capitale o cessione di asset non più strategici, che è poi quello che le banche stanno già facendo da anni. In ogni caso è chiaro che più esposte sono tuttora le banche europee (ed italiane), rimaste indietro nel processo di ristrutturazione delle proprie attività (che finirà probabilmente con l'espellere forza lavoro) e di ricapitalizzazione (che potrebbe portare alla perdita del controllo di qualche gruppo), rispetto alle concorrenti statunitensi e asiatiche.

Secondo i calcoli di Barclays, ad esempio, Jp Morgan Chase e Wells Fargo potrebbero aver necessità di 127 miliardi di dollari per salire al 18% dei propri asset ponderati per il rischio, mentre Banco Santander e Bbva potrebbero da sole aver bisogno di 110 miliardi (di cui una novantina per il solo Banco Santander), mentre Bnp Paribas e Hsbc potrebbero a loro volta dover rafforzare di 50-100 miliardi il proprio capitale e Barclays stessa tra i 25 e i 50 miliardi di dollari. Nel frattempo le banche continuano a ridurre mese per mese la propria “esposizione” al rischio su credito vuoi cedendo portafogli di crediti “problematici” (operazioni che in Italia però stanno slittando rispetto ad annunci fatti ancora pochi mesi or sono, stante la difficoltà di stimare correttamente il valore dei crediti che si vogliono cedere e che i potenziali acquirenti difficilmente accettano di pagare più di un 5%-10% del loro valore nominale), vuoi chiedendo il rientro di crediti ancora “in bonis”.

Cosa c’entra con tutto questo l’Ilva? L’Ilva c’entra perché le tre banche più esposte, Intesa San Paolo, Unicredit e Banco Popolare, che hanno già staccato ad agosto il primo assegno (125 milioni di euro) del prestito ponte da 250 milioni di euro, molto meno dei 650 milioni chiesti dal commissario dell’Ilva, Piero Gnudi (insediatosi a giugno al posto di Enrico Bondi), a fronte di un piano ambientale che da solo prevede investimenti per 1,8 miliardi (cifra che corrisponde, tra l’altro, al valore dei beni sequestrati agli ex proprietari, i Riva), non intenderebbero aprire ulteriormente il borsellino se non si saprà con certezza che fine farà l’Ilva stessa, ossia chi sarà l’acquirente del gruppo e quanto e come si impegnerà a ripagare i debiti pregressi. Acquirente che dovrà uscire allo scoperto nelle prossime settimane, visto che finora si sono avuti solo “voci” di un interesse da parte del colosso indiano Arcelor Mittal (91,2 milioni di tonnellate d’acciaio prodotte ogni anno), dei cinesi di China Development Bank e forse di qualche gruppo italiano (Marcegaglia o Arvedi) o di un secondo, più piccolo, gruppo indiano, Jindal Steel (11,8 milioni di tonnellate).

Perché il caso Ilva possa avere un lieto fine è necessario che l’azienda possa tornare a veder salire il proprio giro d’affari e i propri profitti, la qual cosa richiede che nei prossimi anni possa esservi una crescita economica che giustifichi nuovi investimenti infrastrutturali per i quali siano necessari i prodotti del produttore italiano (che nel 2013 ha prodotto in tutto 5,7 milioni di tonnellate d’acciaio, risultando il settimo maggior produttore mondiale). Perché vi sia crescita sarebbe auspicabile non si assistesse a ulteriori contrazioni del credito. Perché questo non accada occorrerebbe l’accordo di mercati e governi per tempi più lunghi relativamente al processo di ristrutturazione e rafforzamento dei bilanci bancari e pubblici. In ogni caso qualcuno alla fine un rischio lo dovrà correre, o il solo rischio concreto è la perdita di ulteriori migliaia di posti di lavoro.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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