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Opinioni

Sindacati e camere di commercio contro la riforma della PA

Renzi prova a riformare la PA, ma mentre il decreto 90 è all’esame del Parlamento sindacati e camere di commercio si mettono di traverso: i benefici riguarderanno pochi, mentre a pagare saranno i dipendenti degli enti pubblici. Cosa c’è di vero?
A cura di Luca Spoldi
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Si fa presto a dire “riforme” e “tagli alla spesa”: nel “bel paese” del tassa e spendi, quello per intendersi in cui si impongono tariffe di “equo compenso per copia privata” che altro non sono che una tassa che colpisce quei “supporti” come cd, dvd ma anche computer, tablet e smartphone (in quanto ciascuno di questi supporti potrebbe, forse sì forse no ma non si sa mai, essere utilizzato per registrare copia di un brano musicale o di un film peraltro già legittimamente acquistati e sui quali si è quindi già assolta una imposta) e poi ci si scandalizza (pro elettorato proprio?) come l’onorevole Francesco Boccia (PD) che su Twitter tuona “grave ritorsione #Apple” dopo che la casa americana ha integralmente scaricato l’aumento sui consumatori per di più precisando, come d’abitudine, che l’aumento è dovuto ad una maggiore tassazione e non a una sua decisione di prezzo, chi si prova a tagliare la spesa viene ugualmente “impallinato” fosse pure dal “fuoco amico”.

Capita infatti che nel decreto 90 di riforma della PA all’esame della Commissione Affari Costituzionali (per poter poi andare al voto in aula alla Camera e quindi essere passato al Senato entro la data già fissata del 28 luglio) sia previsto (all’art 28) la riduzione del 50% “a decorrere dall’esercizio finanziario successivo all’entrata in vigore del presente decreto”, dell’importo del diritto annuale a carico delle imprese di cui all’articolo 18 della legge 29 dicembre 1993, n. 580 (ossia dei diritti camerali che le aziende in Italia sono obbligate a pagarsi per rimanere iscritte nei relativi registri). Bene mi verrebbe da dire, visto che in soldoni significa un risparmio di quasi 400 milioni di euro l’anno per le Pmi medesime secondo quanto emerge dalla Relazione Tecnica al decreto stesso. Ma l’ufficio studi della Cgia di Mestre (che ha appena pubblicato un rapporto dedicato al “sistema camerale in Italia: ruolo, valore e identità”) si domanda: “ne vale la pena?” E la risposta indovinate qual è? No, naturalmente.

Perché no? Perché secondo la Cgia il beneficio andrebbequasi esclusivamente a vantaggio delle grandi imprese (circa l’1% in Italia)” e questo par di capire sia già sufficientemente scabroso per chiudere la questione e rinviare ogni ipotesi di riforma di organismi nati alla fine del 1700 a Firenze e poi diffusesi sotto l’impulso dell’epopea napoleonica agli inizi del 1800 in tutta Italia. La riforma poi non piace ai sindacati (quelli stessi, incidentalmente, che sempre nello stesso “bel paese” sembrano in grado di far naufragare anche l’ultimo tentativo di dare una qualche prospettiva futura ad Alitalia che non sia quella di pesare a babbo morto sui contribuenti) perché, come sostiene ancora la Cgia, il beneficio immediato di cui sopra “potrebbe rivelarsi un boomerang in quanto metterebbe a rischio la sostenibilità del sistema camerale” che forniscono “numerosi servizi” a favore delle imprese, “specialmente quelle di piccola dimensione” e per il fatto che un “trasferimento delle funzioni camerali ad altri enti pubblici potrebbe addirittura trasformarsi in un aggravio per i nostri conti pubblici, dato che, in tal caso, non sarebbero le imprese a finanziare i servizi camerali, ma lo Stato stesso”.

Stato che peraltro non si capisce poi dove/da chi prenderebbe i soldi, se non con una imposta sulle imprese a cui sarebbero destinati i “numerosi servizi” di cui sopra, visto che non può più stampar moneta e che già ora fa fatica a contenere il debito pubblico nei vincoli stabiliti in sede europea, come spiegato solo ieri. Per Unioncamere (che sarebbe peraltro una “parte interessata”, ma che volete che sia) la riforma “metterebbe a rischio 2.500 posti di lavoro, comporterebbe un aggravio alle casse dello Stato di 167 milioni di euro ed avrebbe un effetto recessivo complessivo di circa 2,5 miliardi di euro (pari allo 0,2% del valore aggiunto nazionale)”. Insomma: questa riforma non s’ha da fare.Come non s’ha da licenziare i dipendenti Alitalia, non s’hanno da eliminare le Province, non si devono sopprimere gli enti “inutili” (che brutta parola signora mia). Anzi, sarebbe meglio non fare proprio riforme.

Semmai se proprio fosse necessario si potrebbero organizzare convegni, formare tavoli di consultazione, preparare analisi (nel caso sono a disposizione ovviamente), il tutto facendo “girare l’economia” con un po’ di spesa pubblica aggiuntiva. Come abbiamo fatto a non pensarci prima dirà qualcuno, ma a parte la difesa “lobbistica” dell’esistente, c’è qualche critica sensata? Probabilmente sì: sostiene sempre Cgia nel già ricordato rapporto (purtroppo ben guardandosi dal citare fonti certe o calcoli alla base delle proprie previsioni) che dimezzando i costi per le imprese si minerebbero i “finanziamenti camerali ai Confidi”, che dall’inizio della crisi “sono aumentati complessivamente dell’87%” (ed in particolare quelli verso il settore dell’artigianato “sono incrementate del 134%”). E siccome come ben sanno coloro che fanno impresa (e alcuni validi commentatori come Fabio Bolognini) il problema vero è che alle aziende italiane, specialmente le Pmi, in questo momento le banche fanno poco (e male) credito, tanto che nel primo semestre dell’anno a fronte di un aumento della domanda di credito (+19,5% le imprese individuali, +9,5% quelle di capitale secondo i dati di Banca d’Italia e Crif) l’offerta dello stesso si è ridotta di un ulteriore 4,7% medio, par di capire sia meglio non rischiare di sopprimere uno dei pochi canali che ancora erogano qualche euro ai nostri artigiani e imprenditori.

Un punto importante, perché tocca il vero nervo scoperto dell’economia italiana: la necessità di riavvicinare domanda e offerte di credito, senza il quale è difficile sperare di vedere alcuna ripresa la cui assenza, come già detto ieri, è la causa principale del peggioramento del rapporto debito/Pil nonché della perdurante assenza di investimenti da parte delle aziende (anche di quelle di grandi dimensioni e di quelle estere che del sistema camerale farebbero volentieri a meno) e, ultimo ma non meno importante, della elevata (e crescente) disoccupazione, specie giovanile. Verrebbe solo da aggiungere: difficile pensare di voltare pagina se manca, come pare mancare, ogni disponibilità ad abbandonare la sola logica lobbistica ed una qualsiasi capacità “politica” in senso lato, anche da parte di sindacati, sistemi camerali, banche, imprese e professionisti tutti, di progettare il futuro, necessaria per andare oltre la gestione dell’emergenza che ha caratterizzato gli ultimi 20 anni. Anni in cui, non a caso, la crescita è pressoché scomparsa dai radar italiani.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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