Il teatrino politico italiano continua con le repliche della commedia che da mesi tiene in bilico la maggioranza di “larghe intese” che nei fatti paralizza ogni azione del governo Letta legandone la sopravvivenza (fine a se stessa?) alla pretesa immunità del leader del Pdl, Silvio Berlusconi, condannato in via definitiva per frode fiscale in relazione alla compravendita di diritti televisivi da parte di Mediaset, ma lo spread per il momento tiene e i titoli di stato italiani non mostrano particolari reazioni nervose come invece accaduto in passato. Anche stamane, dopo il minacciato “ritiro sull’Aventino” del Pdl nel caso il Parlamento ratifichi la decadenza e ineleggibilità di Silvio Berlusconi e mentre Letta, tornato da Wall Street, rassicura l'Europa, il Btp decennale guida apre con un rendimento attorno al 4,25% e uno spread contro Bund del 2,42%, peggio del 2,38% toccato ieri (quando il Btp decennale rendeva il 4,23%) solo perché nel frattempo il Bund, sulla spinta del recupero ulteriore dei T-bond americani, ha riguadagnato parte del terreno perduto.
Come dire che non solo i tempi dei mercati sono ormai stabilmente differenti rispetto a quelli sia dell’economia reale sia della politica, monetaria, fiscale o di qualsivoglia altro genere che sia, ma che la “commedia all’italiana” ormai non appassiona più nessuno, in primis per la tendenza dei mercati stessi a passare immediatamente da uno “valore di equilibrio” ad un altro senza curarsi di essere graduali come vorrebbero banche centrali e governi di tutto il mondo, come spiegato più volte da Mohamed El-Erian ( amministratore delegato e co-responsabile degli investimenti di Pimco, la più grande società di gestione di fondi obbligazionari al mondo) e, secondo motivo, perché mentre a Roma si fanno chiacchiere a vuoto (stando ben attenti a non tagliare i finanziamenti ai partiti e in generale i costi veri della politica, che così continua a pesare sul “paese reale”), il mondo sta rapidamente modificandosi.
Il come si stia modificando l’Italia, in particolare in campo economico, è sotto gli occhi di tutti: le aziende italiane alle prese con una crisi devastante legata al crollo della domanda interna, risultato a sua volta delle “cura letale” (coprywright Mario Seminerio) ostinatamente seguita dall’Italia e dagli altri “reprobi” del Sud Europa sotto la pressione della Ue, ovvero della Germania (che forse solo molto gradualmente accetterà di spostare l’attenzione sulla necessità di ripresa dopo l’esito elettorale di domenica scorsa), o tirano a campare, senza riuscire più a fare assunzioni o innovazione, o vengono comprate da concorrenti esteri, o semplicemente falliscono (sempre più spesso anche quei gruppi che per anni hanno potuto contare su “banche amiche”, che ormai preferiscono tirare un ultimo colpo di spugna che non continuamente rinnovare, in perdita, finanziamenti troppo spesso incautamente concessi negli anni precedenti).
Personalmente non mi appassiona la storia della perdita della “italianità” di aziende come Alitalia o Telecom Italia, frutto di privatizzazioni sbagliate nei tempi e nei metodi, che hanno portato quasi sempre soltanto perdite a coloro che vi hanno investito (specialmente nel caso dei piccoli risparmiatori), segno che non si è riusciti, in primis, a migliorare l’efficienza di ex monopolisti (e tuttora oligopolisti) a partire dal top management sino all’ultimo dei dipendenti (quasi sempre esuberanti, come da migliore tradizione delle ex “partecipazioni statali” italiane). Prendete Telecom Italia: venne privatizzata nel 1997 da Romano Prodi (ex presidente dell’Iri e all’epoca Premier italiano) attraverso la cessione del 42% del capitale a un “nocciolino duro” di azionisti capitanati (che cercò di assicurarsene il controllo con appena il 6,62% del capitale) guidati dalla Ifil del gruppo Agnelli (che da parte sua provò a fare il “primus inter pares” con giusto lo 0,7% del capitale).
Per il suo 42% lo stato italiano, in piena “era privatizzazioni”, incassò 22.883 miliardi di vecchie lire (pari a 11,87 miliardi di euro, contro una capitalizzazione attuale di 10,96 miliardi per il 100% della società) ma a molti sembrò che avesse “regalato” l’azienda. Tanto che nel 1998 il duo Roberto Colaninno-Chicco Gnutti (che Massimo D’Alema, nel frattempo succeduto a Prodi alla guida del governo, ribattezzò “capitani coraggiosi”) lanciò un’Opa attraverso Olivetti-Tecnost riuscendo a mettere le mani sul 51,02% del capitale. Per riuscirvi, in un momento di “denaro facile”, i due finanzieri fecero ricorso al debito (l’operazione costò in tutto 61 mila miliardi di lire, ossia 31,85 miliardi di euro, di cui solo 37 mila miliardi di lire, o 19,2 miliardi di euro, rivenienti da un aumento di capitale di Olivetti). Ma i mercati in quel momento erano “innamorati” del comparto “tmt” (telecomunicazioni, media e tecnologia), le Twin Tower svettavano ancora nello skyline di Manhattan e Lehman Brothers era una delle più blasonate banche d’affari del mondo.
In borsa il titolo continuava a salire sino a toccare i 6,10 euro per azione (in termini rettificati) a inizio 1999, mentre Colaninno e Gnutti avviavano la lunga campagna di cessioni per cercare di ripagare il debito con cui erano riusciti a mettere le mani sull’ex monopolista telefonico italiano. La tempesta si avvicinava e in borsa il titolo iniziava a perdere quota riportandosi sotto i 3,5 euro già nell’ottobre del 1999. Ciò nonostante a inizio marzo del 2000 il titolo era risalito al suo massimo storico di 9,1 euro per azione: il tempo di illudere qualche migliaia di piccoli investitori e l’ottovolante iniziava la sua lunga discesa. Meno di un anno dopo, a inizio 2001, Marc o Tronchetti Provera (principale azionista di Pirelli & C.) e la famiglia Benetton (che grazie alle privatizzazioni era riuscita a salire in sella ad Autostrade e Autogrill) rilevavano il 23% di Telecom Italia controllato da Colaninno-Gnutti attraverso la finanziaria lussemburghese Bell (che controllava a sua volta Olivetti, ormai un pallido ricordo dell’azienda fondata da Adriano Olivetti e di fatto solo più scatola di controllo di Telecom Italia con la quale verrà fusa nel 2003) pagando i titoli 4,175 euro quando in borsa avrebbero potuto acquistarli attorno ai 2,25 euro.
Da lì in poi è una strada ancora più in discesa: nel 2006 Tronchetti Provera e i Benetton sono affiancati da Banca Intesa (poi Intesa Sanpaolo), UniCredit e la Hopa di Gnutti che riuniscono i loro titoli Telecom Italia in Olimpia; nel 2006 a Olimpia (il cui azionariato viene ristrutturato e fa ora capo all’80% a Pirelli e al 20% alla Edizioni Holding dei Benetton), che di Telecom Italia controlla solo più il 18%, si affiancano Mediobanca e Generali, in modo da rinsaldare il controllo che sale al 23,6%. A inizio 2007 gli italiani chiamano la spagnola Telefonica e creano una nuova scatola, Telco, in cui entrano oltre a Telefonica Mediobanca, Generali e Intesa Sanpaolo. Telco acquista i titoli in mano a Olimpia (gli italiani pagano 2,75 euro, gli spagnoli 2,9 euro, in borsa il prezzo sta oscillando tra 2,2 e 2,3 euro) e fa spazio ai Benetton, che restano soci fino al 2009 quando decidono di chiudere la loro avventura nelle telecomunicazioni con una perdita definitiva attorno a 1,5 miliardi di euro, riacquistando (a 2,2 euro l’uno, mentre il titolo in tutto l’anno si muove in borsa tra 0,8 e 1,2 euro) e poi ricollocando il proprio 2% di Telecom Italia.
Il resto è storia di questi giorni, con gli spagnoli che “mediano” il prezzo di carico impegnandosi ad acquistare le partecipazioni dei soci italiani, che ormai vogliono uscire, a circa 1,1 euro per azione con un titolo che in borsa tocca solo per un momento i 60 centesimi e poi inizia a perdere terreno, essendo chiaro che neanche stavolta si passerà per il mercato. Ma di tutto questo, come della politica industriale di Telecom Italia (o di Fiat, o di Riva o di decine, centinaia o anche migliaia di altre grandi, piccole e medie imprese italiane), o della necessità di aggiornare il nostro modello creditizio, a Roma non si parla. L’importante è tirare a campare, o minacciare ripicche, a seconda dei gusti e del partito (o sindcato, associazione di categoria o gruppo di pressione) di appartenenza. Tanto lo spread, per fortuna nostra, sta dove sta con la Germania impegnata a risolvere i suoi di problemi (infrastrutture da rinnovare, produttività in calo, salari che dopo continue compressioni negli ultimi 15 anni stanno iniziando a risalire, generando un rialzo dei tassi che potrebbe interrompere i flussi di “denaro facile” di cui il paese ha goduto in questi ultimi anni) e gli Stati Uniti (e il Giappone) che non se la passano tanto meglio. Così è, se vi pare.