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Opinioni

Seriamente: e se fossimo già falliti?

Più passa il tempo più emerge con chiarezza che la crisi ha mostrato il limite del sistema Italia: la scarsa dotazione di capitali e competenze. Ciò nonostante imprenditori, banchieri e politici non vogliono farsi da parte.
A cura di Luca Spoldi
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Bancomat

Se vi ricordate da almeno sei mesi mi sto chiedendo se non siamo già falliti e non ce l’abbiano semplicemente evitato di dire. Un sospetto che deve essere passato anche per la mente del candidato repubblicano alla Casa Bianca, Mitt Romney e che si lega alla storica sottocapitalizzazione delle maggiori aziende italiane come Fiat e che sembra trovare riscontro nelle recenti voci di stampa secondo cui Intesa Sanpaolo e UniCredit potrebbero fondersi per il “nobile”, patriottico scopo di evitare la “calata dei barbari”, pronti ad approfittare di una momentanea defaillance della maggiore banca italiana a livello europeo per prenderne il controllo. Quello del controllo è un tema antico quanto il mondo che da che mondo è mondo va di pari passo con la solidità finanziaria di un gruppo, sia esso un’azienda agricola, industriale, dei servizi o una banca.

Ma in Italia dove spesso “imprenditore ricco, azienda povera” è il motto che ricorre persino nei convegni di private equity e unioni imprenditoriali e dove il controllo del settore bancario è tuttora in mano a Fondazioni che, in larga misura, non sono altro che centrali “politiche” di redistribuzione di ricchezza a livello locale (con logiche e organizzazioni non sempre cristalline), si tenta di mantenere il controllo attraverso bizantine strutture proprietarie che consentano all’imprenditore o alla Fondazione (e dunque al politico) di sborsare meno quattrini possibile senza cedere troppe poltrone nei board.

Un “piccolo mondo antico” che la rudezza nei rapporti con i lavoratori e le loro rappresentanze mostrata da manager come Sergio Marchionne, di cui peraltro ammiro la capacità di destreggiarsi in un panorama in cui la forza finanziaria sembra essere la determinante ultima date le economie di scala e di esperienze ormai richieste per competere con successo su settori maturi o stra-maturi (oltre all’auto e alla finanza si potrebbero citare anche i casi dell’alimentare, dell’energia, delle costruzioni, dei media tradizionali, della telefonia o della grande distribuzione), sembra indicare non voglia darsi per vinto e fare spazio a una nuova generazione di imprenditori, politici e banchieri. Condannandoci forse più che ad un per molti versi inevitabile “decennio giapponese” fatto di molti sacrifici per la maggioranza degli italiani (e di qualche vantaggio per pochi di loro) ma di poca crescita dell’economia, ad un ulteriore lento ma costante decadimento culturale e pertanto economico.

Volete qualche indizio? Qual è il tema centrale di cui si discute da almeno un paio d’anni, ossia da dopo l’affievolirsi del “rimbalzo” seguito all’esplosione della bolla finanziaria sul finire del 2008 in America e poi in tutto il mondo? Del parallelo restringimento della spesa sia del settore pubblico sia di quello privato, perché il debito era arrivato a livelli giudicati sia dall’interno, sia soprattutto dall’esterno (Germania in testa) insostenibile. Il che è probabilmente vero e spiega il perché di tanti fallimenti e di ancora più numerosi casi di ristrutturazione dei debiti contratti negli anni precedenti col sistema bancario italiano (e non solo), sempre pronto ad aiutare pochi grandi gruppi e a far pagare caro i suoi “servizi” a tutto il resto della clientela, stando attenti a non farsi troppa concorrenza né tra grandi gruppi privati né tra banche.

Così ora la verniciata di “patriottismo” (quello, per intenderci, spennellato ampiamente sulla vicenda del “salvataggio” di Alitalia attraverso la fusione col suo principale concorrente, Air One, in attesa di una successiva possibile vendita ad Air France) cerca di coprire la nudità dei maggiori gruppi italiani in termini di capitali. Piccoli a livello internazionale, spesso in settori molto maturi e ad alta intensità di capitali, con la tendenza a non fare della competenza il criterio chiave attorno a cui orientare la propria organizzazione e pertanto anche scarsamente innovativi, i gruppi italiani stanno faticosamente prendendo tempo, traccheggiando, rinviando decisioni d’investimento, cercando di riscadenziare e alleggerire il proprio debito, facendone pagare una parte alla propria clientela e un’altra ai propri dipendenti o alla collettività (attraverso l’utilizzo di ammortizzatori sociali).

Quindi torno a farmi e a farvi la domanda: non sarà che siamo falliti, come sistema paese e come grande maggioranza dei soggetti economici (e politici) e nessuno ce l’ha detto? Se assisteremo a ulteriori fusioni tra banche, assicurazioni, grandi, medie e piccole aziende, al fine di rendere più “sostenibile” il peso del debito, a scorpori più o meno assistiti dallo stato (magari tramite l’intervento della Cassa depositi e prestiti, il cui indebitamento non rientra formalmente nel debito pubblico pur essendo del Tesoro al 70%), a cessioni effettuate come “estrema ratio” e non nell’ottica di un’autentica rifocalizzazione delle attività “core” di ciascuno, la risposta sarà positiva, anche se nessuno ce lo verrà a confermare platealmente. Forse perché chi potrebbe farlo sarà già impegnato a mettere le mani nelle tasche degli italiani per cercare di prendere quanto più denaro possibile per ripagare almeno in parte i debitori e cercare di mantenere il controllo su qualcosa, fossero pure solo più delle poltrone prive di un reale potere economico.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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