Poco più che un biglietto di scuse: l’assemblea degli azionisti di Seat Pagine Gialle, ex “reginetta” della new economy tricolore anni Novanta, ha approvato oggi la proposta di transazione da 30 milioni di euro (20 milioni dei quali saranno pagati de due compagnie di assicurazione, mentre i restanti 10 milioni saranno a carico di un gruppo di fondi che dal 2003 al 2012 hanno rivestito il ruolo di azionisti di riferimento della società) in cambio dello stop all’azioni di responsabilità avanzata lo scorso marzo nei confronti di diciassette ex amministratori della società, con cui si chiedeva di rifondere un danno ipotizzato pari 2,3 miliardi di euro.
Visto che Seat, che oggi ha chiuso in calo del 3,57% i borsa scivolando a 0,27 centesimi di euro per azione (il che significa che occorrono quasi 4 mila azioni per ottenere un euro in cambio, o detto diversamente che la capitalizzazione è ormai inferiore ai 181 milioni di euro, ), nei primi nove mesi del 2014 ha fatturato 295,3 milioni di euro, con un Ebitda di 42,2 milioni, la cifra può apparire “congrua”, ma rispetto al danno stimato i milioni recuperati oggi rappresentano appena l’1,25%, molto meno del valore al quale vengono scambiati usualmente crediti finiti in sofferenza (a seconda dei casi si oscilla tra il 3% e il 7% circa del valore nominale del credito). Per capire come sia stato possibile arrivare a tanto è necessario ricostruire la tormentata vicenda di Seat negli ultimi
Quello di Seat Pagine Gialle è uno dei più brutti esempi di come la “finanza creativa” del capitalismo di relazione italiano sia riuscita a spolpare letteralmente una società che ancora nel 2003, quando il comando passò ai fondi di private equity Bc Partners, Cvc, Permira e Investitori Associati, fatturava 1,45 miliardi di euro, con un Ebitda di 602,336 milioni ed un utile di 16,4 milioni. All’approvazione del bilancio 2003, il 16 aprile del’anno seguente, il titolo in borsa valeva ancora 0,824 euro ma era già in calo verticale rispetto al 1996, quando la società, fino ad allora autentica “gallina dalle uova d’oro” del gruppo Iri-Stet, venne privatizzata.
Con quella operazione il controllo passava dalla mano pubblica al consorzio privato Ottobi che per il 61% della società pagò 1.643 miliardi di lire (ovvero 850 milioni di euro), ricorrendo all’indebitamento bancario. Ottobi era infatti un veicolo finanziario controllato da Otto Spa, holding che vedeva tra i suoi soci Comit (poi confluita in Intesa Sanpaolo), il gruppo De Agostini della famiglia Boroli-Draghi, Telecom Italia e i fondi Bain Capital, Investitori associati, Bc Partners, Cvc, Abn Amro Ventures e Sofipa, come dire che fin dall’inizio dell’operazione la logica finanziaria aveva avuto uno spazio pari se non superiore a quella industriale.
Sul mercato, va ricordato, Seat c’era finita (sotto il governo Prodi) non tanto per motivazioni “ideologiche” quanto per fare cassa e coprire i debiti dell’Efim (la più piccola delle holding delle partecipazioni statali), come richiesto da un accordo siglato dall’Italia con l’allora Commissario Ue alla Concorrenza, Karel Van Miert che diede vita alla prima “tornata” di privatizzazioni degli anni Novanta. Per Seat sembrava poter essere una situazione “win-win”: lo stato faceva cassa, i privati mettevano le mani su un business “sicuro” (Seat, in quel momento monopolista degli elenchi telefonici, aveva come cliente la stessa Telecom Italia, ancora monopolista telefonico italiano) e promettente, tanto che altri concorrenti (Mediaset, con Pagine Utili) provarono ad entrare nel business pochi anni dopo.
Ma i nostri “capitani di ventura” avevano altre idee: dopo neanche un anno Seat Spa incorporò la controllante Ottobi e si trasformò in Seat Pagine Gialle Spa, ritrovandosi sulle spalle i debiti fatti dai privati per assumerne il controllo. Nel 1999 un primo maxi dividendo da 2.038 miliardi (di cui 913 finiti in tasca agli ex “scalatori”) ridava indietro ai privati il 55% di quanto pagato per rilevare Seat dalla mano pubblica, mentre un nuovo debito (da 2.670 miliardi di lire stavolta) ricaricava la molla portando la società a disporre di 750 miliardi di mezzi freschi e 1.300 miliardi di debiti. Poco dopo venne annunciata l’acquisizione di Matrix (proprietaria del portale Virgilio) per 16,5 miliardi di lire seguita da ulteriori operazioni minori tra cui l’acquisto di Telegate e Mondus con l’intenzione di creare dei centri di eccellenza per il web.
Nel dicembre del 1999 viene annunciata un’Offerta pubblica di scambio (Opas) su Buffetti, operazione apparentemente poco coerente (Buffetti era il leader italiano della distribuzione di prodotti per ufficio, altro business che di lì ad alcuni anni avrebbe attraversato una crisi molto pesante), ma giustificata con la volontà di acquisire la rete (1200 punti vendita) distribuita su tutta Italia, giudicata complementare allo sviluppo della presenza online. Nel febbraio 2000 arriva l’integrazione con Tin.it (all’epoca divisione internet di Telecom Italia, nel frattempo privatizzata e finita sotto il controllo del duo Gnutti-Colaninno) e nell’agosto dello stesso anno l’acquisizione di Tmc e Tmc 2 dal gruppo Cecchi Gori (nasce così il nucleo di ciò che sarà poi La7). Nel frattempo l’azionariato di Seat Pagine Gialle cambia: Telecom Italia sale al 65,09% Huit (ossia gli ex soci di Otto e l’amministratore delegato di Seat Pagine Gialle, Lorenzo Pelliccioli) è al 12,08%.
A questo punto per gli scalatori originali il gioco è valso abbondantemente la candela: hanno incassato oltre 6,7 miliardi di lire, grazie ai maxi dividendi staccati via via indebitando la società, oltre otto volte quanto “speso” (si fa per dire) inizialmente. Roba da strappare un applauso, anzi da indurre nuovi investitori a provarci a loro volta. Detto fatto: nel 2003, come già ricordato, Bc Partners, Investitori associati e Cvc, insieme a Permira, fanno il bis e con Spyglass ricomprano la società da Telecom Italia, che nel frattempo ha a sua volta problemi per i debiti con cui la società è stata scalata da Gnutti e Colaninno nel 1999, per 3 miliardi di euro, poi staccano l’ennesimo maxi dividendo da 3,6 miliardi (“accontentandosi” degli 1,8 miliardi di euro di competenza) indebitando nuovamente Seat Pagine Gialle per 4 miliardi. Quindi collocano un ulteriore 12,4% di capitale in borsa per 800 milioni, ma qui le cose iniziano ad andar male perché le quotazioni scendono mentre il debito sale (arrivando a 2,7 miliardi nel 2011).
Un’azienda che all’alba del XXI secolo valeva 24 miliardi di euro di capitalizzazione e sembrava avere un futuro promettente è stramazzata al suolo, portando infine i libri in tribunale poco meno di due anni fa, nel febbraio 2013. Manager e grandi soci in pochi anni hanno “estratto” così tanto valore e compiuto così tanti errori industriali che non è rimasto più nulla, proprio mentre la rivoluzione digitale iniziava a mostrare la sua potenza “disruptive” cambiando i connotati a interi comparti economici e rendendo rapidamente obsolete competenze, manager e intere aziende fino a pochi anni prima “leader” di settore. A pagare, come sempre, sono stati lavoratori, che hanno perso a centinaia il proprio posto di lavoro, e piccoli azionisti, che hanno provato a investire sul titolo in borsa, senza rendersi conto del buco nero in cui stavano per infilarsi.