L’Unione europea è alla vigilia di una serie di importanti test elettorali: si comincia il 15 marzo in Olanda, si proseguirà il 23 aprile (con un secondo turno il 7 maggio) in Francia, si concluderà a fine agosto o ai primi di settembre (la data più probabile dovrebbe essere il 27 agosto) in Germania, dove ieri è stato eletto il nuovo presidente della repubblica, il socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier. Tra marzo e settembre potrebbero inoltre essere convocate elezioni anticipate in Grecia e forse in Italia.
Che il momento sia delicato per il futuro della Ue è quasi banale dirlo, anche se nessuno sembra realmente credere, a partire dai mercati finanziari, che i partiti “anti sistema” riusciranno a cavalcare così tanto la spinta populista da mettere fine all’esperienza dell’Unione europea e dell’euro e con esse, con buona probabilità, alle speranze di un futuro meno problematico dell’attuale incerto presente.
Che l’Unione, tuttora incompleta, vada rivista è altrettanto pacifico e che debba trovarsi il modo di completarla riducendo e non aumentando la distanza tra gli stati membri è ugualmente sotto gli occhi di tutti, eppure il partito dei “no euro” sembra non darsi pace e cercare in ogni modo di arrivare a far saltare il banco. A impensierire maggiormente al momento sembra la Francia, ma sono timori corretti e soprattutto che conseguenze avrebbe per l’Italia l’uscita della Francia dall’euro?
In una ricerca intitolata “il toast francese” Credit Suisse, che è una banca svizzera e dunque è fuori dall’euro, chiarisce ogni possibile equivoco precisando fin dalle prime righe che “se diventasse probabile che Marine Le Pen diventasse presidente della Francia, riteniamo che il problema non sarebbe la Francia che lascia l’euro, ma l’euro che lascia la Francia”. Un ragionamento analogo varrebbe con ogni probabilità anche per l’Italia per cui è interessante esaminarlo.
Dal punto di vista dei mercati, spiegano gli analisti svizzeri, a breve termine il rischio è che essi possano diventare ancora più cauti e lo spread tra il rendimento dei bond francesi (e di quelli della “periferia” europea, come i Btp italiani) potrebbe ulteriormente ampliarsi. Gli investitori giapponesi, che in dicembre hanno già alleggerito nel modo più marcato degli ultimi 4 anni le posizioni in T-bond mostrando di temere l’incertezza legata all’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump, ma che finora avevano mantenuto sostanzialmente i propri investimenti in bond francesi, potrebbero secondo gli analisti decidere di ridurre l’esposizione, contribuendo a generare pressione sulle quotazioni.
L’eventuale maggiore tensione percepita dagli investitori istituzionali potrebbe a sua volta aumentare lo stress sugli istituti di credito francesi, incrementando i costi di rifinanziamento e così facendo portando ad un generale irrigidimento della concessione del credito ma a meno che i sondaggi non mostrino Marine Le Pen chiaramente avanti nella corsa alla presidenza, lo stress dovrebbe essere contenuto e alla fine poter essere recuperato.
Infatti il sistema bancario francese (a differenza di quello italiano, ndr) si è mostrato finora sufficientemente resiliente per poter superare anche episodi di turbolenza senza amplificarne gli effetti sull’economia reale, inoltre gli investitori dovrebbero recuperare fiducia non appena apparirà evidente (come credono gli esperti di Credit Suisse) che la Le Pen non ha concrete probabilità di vittoria al secondo turno.
In ogni caso la possibilità per la Francia di uscire dall’euro come promette la Le Pen è limitata sia dalla necessità di un voto parlamentare sia dalla costituzione francese (esattamente come accadrebbe in Italia, ndr). Vi è inoltre da tener presente che finché Mario Draghi presiederà la Bce ad ogni serio irrigidimento delle condizioni di credito di un paese di eurolandia l’istituto centrale reagirà dapprima segnalando di essere pronto a “qualsiasi cosa” per ristabilire la calma, poi allentando nuovamente la propria politica monetaria.
Infine, notano gli esperti di Credit Suisse, le condizioni macroeconomiche in Europa e in Francia stanno migliorando e continueranno a farlo, con tutti gli indicatori ciclici che segnalano un’accelerazione della crescita di Eurolandia quest’anno. La cosa che non si può fare a meno di notare, rispetto al quadro così dipinto per la Francia, è che nel caso dell’Italia la crescita sarà ancora molto modesta secondo le ultime previsioni della Commissione Ue.
Dopo che nel 2015 l’Italia è stata la terzultima dei 28 paesi della Ue in termini di crescita di Pil e che lo scorso anno ha battuto solo la Grecia, quest’anno rischiamo di essere ultimi. Il Pil italiano è infatti atteso in crescita dello 0,9% (dopo il +0,9% con cui dovrebbe essersi chiuso il 2016), mentre tutti gli altri paesi membri della Ue cresceranno dell’1% o più, con una crescita media dell’1,8% (dal +1,9% dell’anno da poco concluso), ovvero dell’1,6% per la sola Eurolandia (da +1,7% del 2016).
A impedire una crescita più robusta sarà la Germania (vista a +1,6% quest’anno), a causa del crescente rischio di barriere commerciali che forzatamente ridurrebbero il surplus commerciale tedesco. In Italia, nota la Commissione Ue, quel poco di ripresa che si vede è “principalmente il risultato della politica monetaria espansiva” della Bce e per la parte residuale della capacità di agganciarsi alla “attesa accelerazione della domanda globale”.
Non ditelo ai “no euro”, ma sembra che l’Italia sia l’unico paese ad avere un problema non solo con l’euro, ma in generale con la crescita: qualcuno si inizierà a interrogare sul fatto che questo possa dipendere dal modello di (non) sviluppo adottato in questi anni, con imprenditori sempre meno desiderosi e in grado di intraprendere, banche schiacciate sotto il peso di centinaia di miliardi di finanziamenti accordati in un modo pessimo e che difficilmente rientreranno e un governo che da un paio d’anni prima che ridurre e migliorare la spesa ha provato a distribuire qualche mancetta elettorale spacciandola per una riduzione dell’opprimente pressione fiscale?