Mario Draghi, numero uno della Bce, si è tolto ieri qualche sassolino dalla scarpa e ricorda tra le altre cose che la sovranità monetaria (del cui futuribile ritorno blaterano a vanvera alcuni leader politici italiani nel tentativo di cavalcare lo scontento generato dalla prolungata crisi economica italiana) “l’hanno persa i Paesi troppo indebitati” appunto come l’Italia il cui debito spaventa eccome non solo i politici italiani, che anzi sembrano sottostimarlo visto come tendono ad alimentarlo ad ogni pié sospinto proponendo continuamente nuovi balzelli per tamponare i conti che continuano a non tornare in assenza di una qualche forma di ripresa. Ma nel suo discorso di ieri all’Università Roma Tre Draghi sembra aver dimenticato, o volutamente taciuto, che anche le banche hanno le proprie colpe e debolezze, oltre agli stati, e che a correre rischi oltre ai contribuenti sono i risparmiatori che depositano i propri capitali presso di esse.
Sarà un caso ma proprio oggi, dopo che sui mercati sono state diffuse le trimestrali delle principali banche italiane ed europee, il sito americano Zero Hedge rilancia un’indiscrezione secondo cui al termine del G-20 che si terrà nel fine settimana a Brisbane, in Australia, potrebbe essere annunciata la decisione di dichiarare i depositi bancari parte della struttura di capitale degli istituti, una parte “distante” dalla porzione “senior”, maggiormente garantita, del capitale medesimo. Che significa? Che chi ha depositi superiori alla soglia coperta dal fondo interbancario di assicurazione dei depositi (pari a 100 mila euro per deposito) in caso di fallimento di una banca rischia di non vedersi rimborsare interamente il proprio deposito, finora di fatto garantito dallo stato di appartenenza del singolo istituto fallito.
La questione in realtà non è nuova, anzi già un anno e mezzo fa Anne Sibert aveva analizzato la questione dopo le crisi di Islanda e Cipro arrivando alla conclusione che “l’assicurazione sui depositi è solo un impegno giuridico (valido) per i piccoli fallimenti bancari”. Al contrario in caso di “crisi sistemiche, questi sono impegni più politici che giuridici, sicché conta la solvibilità” dei singoli stati, solvibilità che non sempre è assicurata (anzi, Cipro ha alla fine garantito solo parzialmente le sue banche non avendo le risorse per poterle salvare tutti). “Uno schema di assicurazione dei depositi a livello di Eurozona avrebbe cambiato questo”. Da allora la Ue ha varato due normative sulla risoluzione delle crisi bancarie, stabilendo che siano i proprietari della banca (gli azionisti) e i creditori (in primis i possessori di obbligazioni) a dover assorbire le perdite di una banca, prima che sia fatto ricorso a fonti esterne di finanziamento, ossia prima che i rischi e costi di un eventuale salvataggio siano scaricati sui contribuenti attraverso l’erogazione di aiuti di stato.
Ora il Financial Stability Board ha fatto un ulteriore passo in avanti, presentando le sue proposte per obbligare i creditori a condividere le perdite delle banche. Regole, afferma il governatore della Banca d’Inghilterra (ed ex governatore della Banca del Canada) Mark Carney, che eviteranno per sempre che a pagare per i fallimenti di una banca siano i contribuenti come capitato dopo la crisi del 2008-2009 ai contribuenti britannici, che hanno pagato decine di miliardi di sterline per salvare Royal Bank of Scotland, Northern Rock, Bradford & Bingley e Llodys Banking Group. Tutto bene? Mica tanto, ribattono gli analisti di Zero Hedge: queste regole potrebbero infatti indurre ad una corsa al ritiro dei depositi, almeno di quelli di maggiore consistenza. Dopo tutto se voi aveste un milione di euro presso la vostra banca non dormireste sonni troppo tranquilli sapendo che potete stare relativamente sicuri solo per i primi 100 mila euro.
Naturalmente la questione nel concreto si pone in particolare per i correntisti delle banche maggiormente traballanti, non a caso il Financial Stability Board ha anche suggerito di incrementare ulteriormente i coefficienti patrimoniali delle banche “sistemiche”, cosa che da un lato renderebbe meno probabili fallimenti a catena, dall’altra rischia tuttavia di incidere ulteriormente su una ripresa già asfittica complicando non poco la vita ai governi di paesi molto indebitati come l’Italia. Come stanno le banche italiane sotto questo profilo? Dalle ultime trimestrali si potrebbe dire “benino, ma non ancora bene”. Se gli utili e i depositi sono ovunque aumentati, a salire sono infatti anche i crediti “a rischio” o “in sofferenza” che dir si voglia.
Limitandoci ai tre maggiori gruppi, a fine settembre i crediti in sofferenza netti rappresentavano il 4,11% dei crediti verso clientela di Unicredit (contro il 3,74% di un anno prima), ovvero 19,3 miliardi su 470,3, il 4,04% dei crediti complessivi di Intesa Sanpaolo (erano pari a meno del 3,66% un anno prima) ossia 13,6 miliardi su 337,3 miliardi, al 7,7% dei crediti totali di Mps (dal 6,2% del settembre 2013), ossia 9,7 miliardi su 126,3 miliardi. Solo questi istituti avevano dunque quasi 43 miliardi di sofferenze nette, ossia di crediti che non prestiti che non torneranno mai più indietro (se non per una quota residua, di solito stimabile tra il 5% e il 15% del valore nominale) e che sono molto difficili da collocare sul mercato, nonostante stia crescendo l’interesse di operatori specializzati per questo tipo di asset.
Nei primi nove mesi dell’anno, segnala Banca d’Italia, sono stati messi fuori bilancio “quasi 3 miliardi” di prestiti in sofferenza “attraverso cessioni o cartolarizzazioni”, mentre secondo Abi a fine agosto (gli ultimi dati disponibili) rimanevano in pancia alle banche italiane 79,5 miliardi di sofferenze nette a fronte dei 1819,5 miliardi di prestiti complessivamente erogati alla clientela (dato quest’ultimo ancor nettamente superiore al totale dei depositi, pari a 1708,5 miliardi), per un’incidenza media del 4,37%. Morale della storia: l’Italia ha perso la sua sovranità (monetaria e non) da anni a causa dell’eccessivo ricorso al debito e/o alla bassa crescita che è stata in grado di realizzare con lo stesso, le banche italiane fanno fatica a riequilibrare gli squilibri patrimoniali pur mettendocela tutta e mostrando qualche segnale di progresso, se avete depositi oltre i 100 mila euro forse l’idea di farvi una piccola scorta “di sicurezza” se non sotto il materasso almeno in un caveau blindato privato non è una cattiva idea, tanto più visto che i tassi vicini a zero sui depositi sembrano destinati a rimanere a lungo tra noi.