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Saeco, Alcoa, Ilva: è la fine dell’industria in Italia?

Le aziende chiudono, le trattative falliscono, i piani non funzionano. Lo certifica l’Eurostat. Ma al governo pare non interessare.
A cura di Michele Azzu
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Sono giorni duri per l’industria in Italia. Allo stabilimento Saeco i lavoratori sono in presidio da 48 giorni e ora scioperano contro la decisione dell’azienda di effettuare 243 esuberi – circa la metà dei dipendenti – mentre parte della produzione si è spostata in Romania. "Dobbiamo rispettare i tempi di consegna degli ordini”, spiegano dall’azienda, che lamenta i ritardi dovuti al presidio.

Ma non basta. Pochi giorni fa l’amministratore delegato di ENI, Andrea Descalzi, è stato ricevuto al ministero dello sviluppo per chiarire l’intenzione di dismettere il progetto “chimica verde”, con la cessione di Versalis, che avrebbe dovuto impiegare tutti i vecchi dipendenti della chimica già smantellata con la fine della Vinyls, e che invece ora si rivela poco più di uno specchietto per le allodole.

Sono giorni caldi anche per l’Ilva di Taranto: il decreto per il suo (ennesimo) salvataggio è stato approvato alla camera e ora passa in senato. Ma la Commissione Europea ha bocciato come “aiuto di stato” il prestito di 300 milioni di euro. E il piano di Renzi che un anno fa puntava al recupero dei miliardi della famiglia Riva, è naufragato dopo che la banca svizzera Ubs, dove i Riva hanno i propri capitali, aveva negato il trasferimento di quei fondi all’Italia.

C’è infine Alcoa, l’ultima grande azienda sarda, il più grande stabilimento d’alluminio d’Europa fermo da tre anni: anche qui gli operai hanno protestato questa settimana fermando la principale arteria stradale, la 131, per forzare consiglio regionale e governo ad intervenire sulla vendita che potrebbe finalizzarsi il prossimo 20 gennaio col gruppo Glencore, dopo anni di trattative. “Chiediamo un decreto come per l’Ilva”, ha lamentato il deputato sardo Mauro Pili.

Insomma, sembrano proprio giorni decisivi per l’industria in Italia. Quel momento iniziato nel 2009, in cui si manifestarono tutte le vertenze aziendali seguite alla crisi economica, è arrivato ora al capolinea. E la cosa ci riguarda tutti. Perché secondo le stime l’Ilva, da sola, contava mezzo punto di Pil italiano, e ancora oggi dà lavoro a circa 11mila persone. In una zona, poi, dove non esistono alternative all’occupazione.

L’Alcoa occupa circa 500 operai, che con l’indotto e le aziende collegate arrivano a oltre mille: una cifra importante per il Sulcis sardo, la più povera provincia italiana, dove le famiglie campano grazie ad ammortizzatori sociali e pensioni. Per la chimica, poi, si parla di un intero comparto produttivo che occupava migliaia di persone tra Sardegna, Veneto, Umbria ed Emilia Romagna. Ma ora chiude anche quel ramo che sembrava puntare al futuro delle energie pulite, coi combustibili bio.

Non si tratta di pochi operai nostalgici, o di zone depresse del mezzogiorno. È l’Eurostat, l’istituto statistico europeo, a dirci che queste storie pesano anche sui numeri dell'economia italiana: “In Italia la produzione industriale è ancora di oltre il 31% inferiore rispetto ai massimi pre-crisi avendo recuperato solo il 3% rispetto ai minimi toccati durante la recessione”, dice il rapporto. Significa che tutta la produzione dell’industria persa dopo la crisi in sei anni non siamo riusciti a recuperare quasi nulla.

Nel frattempo, la Germania ha recuperato il 28% della sua produzione industriale, la Francia l’8%, il Regno Unito il 5.4%. Nonostante i numeri parlino chiaro, il ministero dello sviluppo non manca di aggiungere una nota positiva al rapporto che rielabora i dati dell’Eurostat. “I dati di Eurostat”, scrivono al ministero, “Dimostrano che l'Italia ha ingranato la ripresa (…) emergono una serie di segnali positivi dell'economia, con particolare riferimento alla fiducia di famiglie e imprese, ai consumi e all'occupazione”.

Eppure, il ministero dello sviluppo dovrebbe sapere che le cose vanno male per l’industria. Dopotutto, sono loro ad aver seguito tutte le vertenze industriali andate a morire in questi anni. E a guardare i casi che tornano all’attualità in questi primi giorni del 2016 non si può fare a meno di notare come le differenti vertenze presentino tanti punti in comune. Unire i puntini, per vedere il disegno che si cela dietro e capirne il significato.

Ad esempio, sulle trattative che fanno acqua. Quelle della chimica sono andate avanti per anni e per due volte la vendita degli impianti è saltata all’ultimo momento, per cause mai chiarite del tutto. Stessa sorte per L’Alcoa: in cinque anni di trattative più di un compratore si è profilato all’orizzonte, e alla fine è sempre un nulla di fatto. Ma davvero Glencore comprerà ora, dopo anni in cui poteva farlo?

È la stessa sorte che dobbiamo aspettarci per l’Ilva? La cessione degli impianti è stata avviata ai primi di gennaio con un decreto del ministro Guidi. “Intravediamo rischi di vendita al buio”, ha commentato la Cisl di Taranto, “Altri soggetti, orientati da strategie industriali opposte ai nostri interessi nazionali possono acquisire gli stabilimenti Ilva e deciderne la soppressione”. Il sindacato Usb scrive: “Ci si sta liberando del problema svendendo la fabbrica”.

Queste, le trattative. Ma i fallimenti riguardano anche i piani realizzati dal governo. Ad esempio, quello della “chimica verde”. Scriveva Repubblica lo scorso luglio: “Una scommessa sull'innovazione che vale 3.7 miliardi di euro in sei anni (…) sul progetto, che è stato sviluppato a Porto Torres, in Sardegna sono già stati investiti oltre 300 milioni di euro”. Ma come abbiamo detto, questo piano ora viene fortemente compromesso dalla cessione di Versalis da parte di ENI.

O pensiamo al “Piano Sulcis”, il protocollo firmato nel 2012 dai ministri Passera e Barca, che fra le altre cose doveva salvare Alcoa con 451 milioni (successivamente portati a 623) di cui una parte veniva dalla multa pagata da Alcoa stessa, per aver ricevuto “aiuti di stato”, come stabilito della Commissione Europea. Da allora questo piano è servito a firmare un contratto di sviluppo per la vicina azienda Eurallumina, realizzare un bando di concorso per “nuove idee”, e garantire esenzioni fiscali alle piccole e medie imprese della provincia.

Inconcludente anche il piano di salvataggio dell’Ilva, celebrato un anno fa da Renzi e finito nel momento in cui la banca svizzera Ubs si è rifiutata di trasferire all’Italia i miliardi dei Riva – e quando l’Europa ha bocciato come “aiuti di stato” i 300 milioni di prestito ponte. Sembra proprio che il disegno sia sempre lo stesso per queste enormi realtà industriali: le trattative per vendere o riqualificare non finiscono mai, o finiscono male. I piani di salvataggio non salvano nulla ma allungano i tempi. I finanziamenti stanziati, poi, scompaiono o sono bocciati dall’Europa come “aiuti di stato”.

Tutto questo viene preso con grande noncuranza. Come dimostrano le parole del ministro Guidi sulla chimica verde: "Il governo è coinvolto ma le condizioni attuali non sono quelle del passato". Insomma, al governo fare la battaglia alle aziende su cessioni, esuberi e fallimenti non interessa proprio. Ma alla fine i nodi vengono al pettine. Come nei numeri dell’Eurostat che certificano che la nostra produzione industriale è andata perduta. Come dicono i 3.519 esuberi annunciati dell’Ilva, i 500 operai dell’Alcoa, i 243 esuberi della Saeco, e quelle centinaia di dipendenti che lavoravano nella chimica e ora perdono anche l’ipotesi chimica verde.

È la fine dell'industria in Italia? Forse sì, ma al governo non importa.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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