Il rimbalzo del prezzo del petrolio ha vita breve: a New York come a Londra il petrolio è nuovamente sui 30,5 dollari al barile, pur avendo toccato un massimo di 31,7 dollari nel pomeriggio, dopo che la Eia (Energy information administration) ha comunicato che la scorsa settimana le scorte di greggio sono cresciute di altri 200mila barili smentendo il calo stimato solo ieri dall’Api (American petroleum institute).
Lo scivolone del greggio rischia di azzoppare anche il tentativo di recupero che da un paio di giorni Wall Street e le principali borse mondiali (emergenti esclusi) stanno imbastendo grazie all’affievolirsi delle tensioni sulla Cine e, di converso, sui mercati dei cambi, dove anzi Pechino oggi è intervenuta per far recuperare marginalmente terreno al reminbi contro dollaro.
Ma più che sulle borse occidentali (o asiatiche) la prolungata debolezza del greggio colpisce sempre di più la già malconcia economia russa, su cui continuano anche a gravare le sanzioni economiche occidentali scattate nel 2014 a causa dello scontro, anche militare, con l’Ucraina. A quelle sanzioni Vladimir Putin aveva provato a rispondere gonfiando il petto e promettendo un rilancio in grande stile del “made in Russia” con possibili ritorsioni nei confronti dell’Europa, ma già a fine 2014, con il petrolio a 65 dollari al barile, era chiaro che lo “zar” del XXI secolo rischiava grosso.
La conferma, ufficiale, è arrivata dopo poco più di un anno (e prezzi del greggio ulteriormente dimezzati) per bocca del ministro delle Finanze di Mosca, Anton Siluanov, secondo cui il Reserve Fund russo, in cui storicamente confluiscono le rendite petrolifere e che è stato finora utilizzato per colmare il crescente deficit del bilancio statale russo (bilancio varato un anno fa basandosi su “prudenziali” previsioni di un prezzo medio del petrolio di 50 dollari al barile), che ha già visto calare del 30% il suo valore dall’inizio dello scorso anno ai 59,35 miliardi di dollari di fine novembre scorso, rischia di esaurirsi completamente entro la fine del 2016 se non verranno varati robusti tagli alla spesa.
Questo però rischia di avere un pesante impatto economico e rinviare ulteriormente la fuoriuscita dell’economia russa dalla recessione in cui è caduta (sempre a fine novembre il Pil di Mosca segnava un calo su base annua del 4% contro il -3,6% di ottobre e il -3,8% di settembre). Tenuto conto che il rublo presenta una forte correlazione (positiva) col prezzo del petrolio, per i russi e chi è esposto alla loro domanda (in Italia si va dalle strutture turistiche dell’isola di Ischia a banche come Intesa Sanpaolo o Unicredit, che ha appena accettato di pagare 200 milioni di euro pur di cedere ad Alfa Group la controllata ucraina Ukrsotsbank) non si prospetta un inizio d’anno particolarmente positivo.
I problemi che deve affrontare Vladimir Putin non si limitano peraltro agli aspetti economici legati alla crisi delle quotazioni petrolifere. In un’intervista a Bloomberg l’ex oligarca russo Vladimir Yakunin (un vecchio amico del presidente russo, ex ufficiale dei servizi segreti presso le Nazioni Unite a New York durante la Guerra Fredda), per un decennio tra gli uomini più potenti della Russia essendo a capo delle Ferrovie Russe, a fine agosto estromesso dalle stanze del potere, ha mandato un avvertimento ai suoi ex sodali del cosiddetto “cerchio interno” di Putin.
“Questo cerchio continuerà a ruotare” con uomini che saliranno e scenderanno dalla giostra, ha spiegato a Bloomberg, perché Putin stesso deve ancora riuscire a formare una sua “classe dirigente come quella che la Russia ha avuto in epoca zarista”. L’errore più grande che può fare un oligarca russo di questi tempi è far vedere in pubblico di ritenere le sue proprietà e privilegi come “diritti inalienabili”. “Ricordate cosa è accaduto a Boris Berezovsky e a Vladimir Gusinsky”?
Berezovsky, uno dei primi miliardari dell’era post-sovietica, accusato dalla stampa di essere uno dei capi della mafia russa, venne trovato morto nella sua casa di Londra nel marzo 2013 apparentemente suicida. Gusinsky, già magnate televisivo ai tempi di Boris Yeltsin, dopo la salita al potere di Putin subì una serie di arresti in Russia e in vari altri paesi europei dove si era in seguito rifugiato e dovette alla fine cedere le sue proprietà.
Sorte simile toccò del resto a Mikhail Khodorkovsky, fino al 2003 l’uomo più ricco della Russia, a capo del colosso petrolifero Yukos ma improvvisamente arrestato per frode fiscale e imprigionato, dopo un discusso processo, fino al 20 dicembre 2013, quando ricevette la grazia presidenziale lasciando immediatamente dopo il paese. Insomma: un paese in crisi, dove continua ad esserci un uomo solo al comando, non pare certamente la più promettente tra le economie “emergenti”.