Unicredit sull’ottovolante: dopo una mattinata positiva il titolo fa un tuffo all’ingiù a Piazza Affari passando in pochi minuti da 6,09 a 5,91 euro prima di risalire sui 6,46 euro per azione (+7%, dopo aver toccato i 6,54 euro, sui massimi dal 2011) con volumi di scambi molto elevati (oltre 221 milioni di pezzi, quasi il 4% del capitale), non appena viene distribuita una note nella quale il Cda della banca guidata da Federico Ghizzoni fa sapere di aver approvato i risultati di gruppo del 2013 e varato il piano strategico 2013-2018. Il 2013 si è infatti chiuso con una perdita netta di 14 miliardi di euro dopo accantonamenti straordinari su crediti per 7,2 miliardi (13,7 miliardi nell’intero 2013) e altri 9,3 miliardi di rettifiche su avviamento nell’ultimo trimestre dell’anno (che hanno portato alla completa svalutazione dell’avviamento allocato a Italia, Europa centro orientale e Austria), con 3,5 miliardi di valore residuo di avviamento iscritto a stato patrimoniale, vale a dire gli stessi livelli del 2004.
Come dire che nell'ultimo triennio il gruppo ha bruciato oltre 24 miliardi di euro netti, visto che già il 2011 si era chiuso in rosso per 9,2 miliardi e il 2012 aveva registrato un modesto utile di 865 milioni. Una pesante pulizia di bilancio che sembra piacere agli investitori e convito gli anlaisti, che parlano di “obiettivi aggressivi” e che porta a fine esercizio il Common Equity Tier 1 (Cet1) al 10,4% (9,4% se calcolato in base ai criteri di Basilea III ed includendo il beneficio legato alla rivalutazione della quota detenuta in Banca d’Italia, pari a 1,4 miliardi ante imposte) ed il “funding gap” (la percentuale di prestiti finanziata facendo ricorso all’emissione di nuovi titoli di debito) a 29,2 miliardi, 36,6 miliardi in meno di un anno prima e contro i 163 miliardi toccati nel 2008. Quanto basta per dormire sonni tranquilli in vista dell'Asset quality review (Aqr) della Bce.
Per ulteriormente limitare i rischi legati all’attività creditizia Unicredit ha inoltre rivisto in senso prudenziale i propri processi di erogazione, rivisitato il processo di monitoraggio degli stessi e semplificato le procedure di recupero crediti. Dall’aprile dello scorso anno “è pienamente operativa una nuova struttura segregata (portafoglio “non core”, cui fanno capo 87 miliardi di crediti lordi, ovvero 54 miliardi al netto degli accantonamenti) dedicata alla gestione delle esposizioni italiane di maggior rischio, forte di 1.100 professionisti specializzati” fa sapere il Cda, secondo cui il nuovo piano strategico quinquennale dovrebbe consentire di raggiungere un Rote (Return on tangible equity, ossia il rapporto tra utile netto e patrimonio tangibile, è una misura della redditività operativa di una banca) del 13% e un Cet1 del 10% entro il 2018, in anticipo rispetto agli accordi di Basilea III.
Se le previsioni saranno rispettate Unicredit punta a distribuire un dividendo equivalente al 40% medio dell’utile, mantenendo una copertura dei crediti deteriorati (i “npl”, in buona parte riferiti a posizioni aperte prima del 2009, quando ancora c'era Alessandro Profumo sul ponte di comando, a fine 2013 erano fermi a 82,4 miliardi lordi, di cui 47,6 miliardi rappresentati da sofferenze lorde, a fronte di 503,1 miliardi di crediti complessivi, ma in calo a 39,8 miliardi in termini di crediti deteriorati netti, il 12,4% in meno rispetto a tre mesi prima) superiore al 50% (a fine dicembre era salita al 52% contro il 45% di fine settembre, con un incremento della copertura delle sole sofferenze dal 56% al 62%). Per intanto il Cda, che ha escluso esplicitamente la necessità di un aumento di capitale, proporrà la distribuzione di un dividendo di 10 centesimi “mediante attribuzione di azioni Unicredit di nuova emissione oppure, su specifica richiesta degli azionisti, mediante versamento in contanti (cosiddetto “script dividend”)”, con stacco dividendo il 19 maggio e pagamento il 6 giugno prossimo.
Per il 2014 il gruppo prevede un utile netto di 2 miliardi destinato a salire a 6,6 miliardi entro il 2018 e un Ceti1 pari al 10% secondo Basilea III a seguito delle azioni previste nel piano triennale, che prevede tra l’altro 4,5 miliardi di investimenti per la crescita della banca e 1,3 miliardi di ulteriori risparmi sui costi. Da notare che nel 2013 il gruppo ha contabilizzato 727 milioni di euro di oneri di ristrutturazione (quasi tutti nell’ultimo trimestre, 699 milioni) e prevede ora di rafforzare la sua presenza sui “canali remoti” e arrivare ad una “distribuzione geografica più razionale” (ossia sopprimere le sovrapposizioni di agenzie eredità delle acquisizioni effettuate in passato) in Italia, Austria e Germania. Questo comporterà secondo i piani “una riduzione dell’organico di circa 8.500 unità entro il 2018 (di cui oltre 5.700 in Italia)”, coi quali si conta di risparmiare 0,3 miliardi nel 2016 e 0,7 miliardi su base annua ricorrente dal 2018. A uscire sarà il 13% circa degli addetti delle attività di banca commerciale nei tre principali mercati dell’Europa occidentale entro il 2018 e il 7,4% della forza lavoro impegnata nelle strutture corporate e centrali di gruppo.
Se tutto questo non bastasse sono inoltre “già identificate” ulteriori azioni per liberare “fino a circa 30 basis point di capitale” con una gestione attiva del portafoglio, “ad esempio la quotazione in borsa di Fineco” (ipotesi che lascia perplessi alcuni analisti come quelli di Fidentis, secondo i quali visto “il potenziale di ricavi e il modello di business a basso assorbimento di capitale” e considerato che collocare tra il 20% e il 30% di una società che ad oggi si può valutare sui 6 miliardi di euro vorrebbe dire incassare tra 1,5 e 1,8 miliardi, “controvalore modesto in relazione ai total asset del gruppo”, forse sarebbe meglio non soprassedere), oppure la “potenziale cessione di Unicredit Credit Management Bank” (Ucmb), principale piattaforma di riscossione crediti in Italia, a un operatore specializzato. Secondo il Cda in particolare questa seconda operazione “consentirebbe a Unicredit di estrarre maggior valore dall’ottimizzazione del recupero crediti”.
Gli effetti di queste operazioni potenziali non sono peraltro considerati nel piano strategico 2013-2018, che punta anche ad una crescita da 174 a 263 miliardi del patrimonio gestito da Pioneer Investment ovvero ad un attivo totale delle attività di raccolta del risparmio (comprese Fineco e Dab) da 76 a 111 miliardi. E l’Est Europa? Non viene dimenticato (lo stesso numero uno del gruppo, Federico Ghizzoni, è stato del resto responsabile per anni di tali attività): nei prossimi cinque anni il gruppo prevede di continuare ad aumentare l’allocazione del capitale a favore del Centro Est Europa (Cee), destinato a passare dal 23% attuale al 30% del totale entro l’arco del piano. In defintiva, visto che le prospettive di crescita in Italia continuano a non sembrare esaltanti, Unicredit proseguirà la cura dimagrante nel Bel Paese, mentre cercherà di crescere all’estero, dopo aver accelerato la pulizia di bilancio per non correre rischi di alcun genere in vista dei prossimi stress test della Bce. Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato: scordatevi il passato, se siete bancari, e non ci pensate più.