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Riello passa a United Technologies, Rhiag a Lkq: l’industria italiana piace all’estero

Dopo Pirelli, Pininfarina e Ansaldo a finire sotto insegne straniere sono i gruppi Rhiag e Riello, finiti a concorrenti statunitensi che non hanno esitato a “strapagare” marchi e know-how italiani. E’ il tramonto di una generazione di imprenditori, ma forse uno spiraglio di uscita da una lunga crisi del credito e degli investimenti diretti in Italia…
A cura di Luca Spoldi
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Sotto l’albero del Natale 2016 l’industria italiana più che trovare doni recita la parte del regalo che qualche concorrente estero si concede. Appena il tempo di vedere installate le nuove insegne di Hitachi sugli impianti di Ansaldo Breda e Ansaldo Sts (che in questi giorni ha vinto una nuova commessa da 338 milioni di dollari con la Massachusetts Bay Transportation Authority per la fornitura di sistemi di controllo per l’intera rete ferroviaria, pendolare e non, a conferma della validità dell’azienda ex Finmeccanica) e di vedere la bandiera dell’indiana Mahindra & Mahindra sventolare sul gruppo Pininfarina e già si sono avute due nuove acquisizioni.

La prima riguarda il gruppo Rhiag, principale produttore a livello europeo (oltre che in Italia ha impianti in Repubblica Ceca, Svizzera, Ungheria, Romania, Ucraina, Bulgaria, Slovacchia, Polonia e Spagna) che avrebbe dovuto sbarcare a Piazza Affari e che invece è stato ceduto dall’attuale proprietario, il fondo di private equity Apax (subentrato due anni fa ad un altro fondo, Alpha Private Equity), all’americana Lkq, sulla base di una valutazione dell’enterprise value di 1,04 miliardi di euro.

Se Rhiag è un nome noto forse più a tecnici e addetti ai lavori che non al grande pubblico, maggior clamore ha fatto il passaggio del controllo di Riello, leader nazionale nelle caldaie e bruciatori a uso domestico, anche in questo caso ad un gruppo americano, United Technologies, che ne ha rilevato il 70% per una somma che non è stata rivelata ma che non dovrebbe discostarsi dai 450-460 milioni di euro indicati da alcune fonti nei giorni scorsi.

Come per Pininfarina nel caso di Riello a far propendere per il passaggio di mano è stata la forte esposizione debitoria nei confronti delle banche (circa 430 milioni di euro in tutto), a partire da Unicredit (100 milioni), Bpm (63 milioni), Banco Popolare (58 milioni), Intesa Sanpaolo (46 milioni), Veneto Banca (35 milioni) e Bnp Paribas (23 milioni), che dovrebbero essere rimborsati a stralcio con un aumento da 390-400 milioni di euro, dunque con uno “sconto” di circa il 10% rispetto al debito nominale che dovrebbe finire spalmato (come perdita) tra tutti i creditori.

La storia di Riello non è peraltro quella di una società in cui la famiglia di imprenditori si arrende al primo colpo avverso della sorte, anzi: fondata nel 1922, l’azienda iniziò a crescere significativamente negli anni Ottanta sbarcando anche all’estero con propri impianti produttivi. Negli anni Novanta vennero effettuate tutta una serie di acquisizioni, poi nel 2000 Pilade Riello vendetta il proprio 50% al fondo di private equity americano Carlyle. Quattro anni più tardi il figlio Ettore e le sorelle riacquistarono la quota grazie ad un finanziamento da parte del pool di sei banche tuttora principali creditrici del gruppo.

Sfumate per l’indisponibilità dei Riello possibili integrazioni con concorrenti del calibro di Aristom Thermo, Ferroli o Bdr Thermea, alla fine l’offerta americana, che ha valutato il gruppo veneto circa nove volte l’Ebitda, è sembrata ai Riello e alle loro banche una di quelle che non si poteva rifiutare. Il caso comprova come a sette anni dall’esplosione della crisi mondiale del 2008-2009 finalmente molte situazioni “incagliate” di cui il panorama industriale (e creditizio) italiano è ancora ricco stiano iniziando a trovare un proprio mercato e possano da un lato andare a ridurre il numero di crediti in sofferenza, dall’altra, si spera, per far ripartire gli investimenti diretti in Italia da parte di gruppi multinazionali.

E’ forse il tramonto dell’industria tricolore? Non necessariamente, se non per l’aspetto più direttamente legato al controllo di marchi, imprese e know-how. Che come ogni asset hanno bisogno di capitali per poter continuare a crescere e a restare competitivi, capitali che in Italia o non ci sono o si preferisce non rischiare, vista anche la debolezza della ripresa domestica e i dubbi che continuano a permanere sulla durata e intensità della ripresa mondiale. Più che il tramonto di un’industria sembra il tramonto di alcune famiglie di imprenditori: è il prezzo da pagare in un paese che invecchia e che è alle prese con una crisi che è anche legata alla difficoltà di effettuare un cambiamento generazionale che altre nazioni hanno semmai accelerato, investendo per tempo sui propri giovani.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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