Neppure il tempo per le agenzie di battere l’incarico dato da Giorgio Napolitano al segretario nazionale del Pd, Matteo Renzi, di formare un nuovo governo che il “toto ministri” è partito e con esso, tra la sorpresa di chi non conosce bene i mercati finanziari, una ulteriore riduzione dello spread tra Btp e Bund tedeschi che sembrerebbe uno sberleffo alla crisi di governo. Crisi che peraltro neppure Piazza Affari ha mostrato di temere continuando imperterrita a salire fino praticamente all’annuncio delle dimissioni di Enrico Letta, venerdì mattina, prima di tirare i remi in barca, complice più la chiusura di Wall Street (che oggi festeggia il President’s Day) che non particolari timori riguardo all’evolversi dello scenario politico italiano.
Diciamolo in modo chiaro: di quello che succede nei palazzi della politica ai mercati finanziari non interessa, in fondo, più da tempo. Perché? Perché le decisioni vere in materia fiscale vengono prese dalla “troika” Ue-Bce-Fmi che ormai da tempo, non solo in Italia, sta svolgendo una funzione di “supplenza” molto simile a quella che negli ultimi anni della “prima repubblica” aveva svolto la Corte Costituzionale italiana, interpretando e/o modificando “chirurgicamente” la normativa così da preservare da un lato il rispetto della carta costituzionale, dall’altra aggiornando quelle norme che il parlamento si dimostrava non più in grado o interessato a cambiare e che pure dovevano essere “rilette” per tenerle al passo con l’evoluzione della società italiana.
In questo caso la funzione di supplenza più che in ambito strettamente normativo è svolta in ambito economico-finanziario, da un lato con l’entrata in vigore di una serie di vincoli di bilancio (sottoscritti dall’Italia in ambito comunitario) che hanno contribuito a generare una stretta fiscale senza precedenti, dall’altro con la stretta sorveglianza della Bce di quelli che sono i meccanismi di politica monetaria con l’erogazione di liquidità per migliaia di miliardi alle principali banche europee (e in questi mesi col varo dell’Asset quality review e dei relativi stress test per incentivare l’irrobustimento dei requisiti patrimoniali e il miglioramento della qualità degli attivi delle banche medesime, pena il neppure troppo velatamente richiamato rischio di ulteriori fallimenti almeno delle banche “più deboli”).
Aggiungeteci che venerdì sera l’agenzia Moody’s anziché tagliare il rating sovrano italiano, come molti temevano, lo ha confermato a livello “Baa2” parlando di “resistenza della forza finanziaria dell’Italia così come riflesso dallo stabilizzarsi del rapporto debito-Pil nel 2014” e portando l’outlook (come già avvenuto per la Spagna) da “negativo” a “stabile”, fatto questo che allontana ulteriormente lo spettro di un futuro taglio del merito di credito sovrano che rischierebbe di generare un rialzo dei rendimenti sia sui titoli di stato italiani sia, a cascata, su quelli delle principali banche e aziende tricolori. Gli amanti delle teorie complottiste potranno pensare che sia stata tutta una manovra dei "poteri forti" per condizionare la vita politica italiana, di certo per Matteo Renzi si tratta di un viatico importante, perché il tasso sul Btp decennale guida cala oggi al 3,63%, sui minimi dal 2006 e 5 centesimi sotto la chiusura di venerdì, mentre la ricerca di investimenti ad elevato rendimento e grado di rischio percepito come relativamente contenuto sta facendo uscire parte della liquidità dagli “ultrasicuri” Bund tedeschi (il cui rendimento sale di un centesimo sull’1,69%).
Risultato: mentre il sindaco di Firenze accetta “con riserva” l’incarico e prepara la squadra di governo (di cui non farà parte il corteggiatissimo amministratore delegato di Luxottica, Andrea Guerra) e a sciogliere in particolare il nodo del futuro responsabile del ministero dell’Economia e finanze, da cui è in uscita il deludente Fabrizio Saccomanni, che in un’intervista prova a difendere i risultati dell’operato suo e dei colleghi del governo Letta (recriminando il fatto che il giudizio di Moody’s sia giunto tardivamente), lo spread Btp-Bund cala all’1,94%, sempre più distante da quel 5,74% toccato nel novembre 2011 poco prima della caduta del governo Berlusconi e potrebbe calare ancora se Renzi potrà tener fede alla “road map” di cui si parla in queste ore che vorrebbe da subito affrontato il nodo della riforma elettorale per poi passare ad affrontare tre macro-temi di grande attualità: la riforma del mercato del lavoro in marzo, la riorganizzazione della pubblica amministrazione il mese successivo, il riordino (e alleggerimento) del fisco in maggio.
Siamo chiaramente nel momento in cui i mercati vogliono dare credito al “nuovo che avanza” e sperare che si riesca a fare, con le stesse persone, forze politiche e corporazioni che finora non sono riuscite a trovare un accordo, quelle riforme strutturali necessarie da almeno un quindicennio ma che puntualmente tutti i governi (Berlusconi, Monti e Letta solo per citare gli ultimi tre che avevano promesso di provarci) non sono stati in grado di fare. Poi verrà il momento della lettura critica dei provvedimenti che verranno proposti. Qualche idea su cosa Renzi potrebbe proporre, ad esempio per il lavoro, il mercato se la sta già facendo ascoltando personaggi come il banchiere d’affari Davide Serra (numero uno del fondo Algebris che qualche anno fa tentò senza successo di scardinare il sistema di potere che governa Generali) che sembrerebbe auspicare per l’Italia una riforma del lavoro “alla spagnola”, ossia fatta di norme che consentono maggiore facilità di licenziamenti (e in teoria di assunzioni, se e quando la domanda tornerà a crescere naturalmente), ma è presto per trarre conclusioni anche perché su alcuni temi come l’Articolo 18 il paese si è ripetutamente diviso e il parlamento bloccato in passato.
Renzi, come scrive su Twitter il banchiere d’affari Carlo Daveri (che con Dvr Capital è abituato a investire in Italia) è arrivato a questa nomina “male e con un metodo che non capisco, ma ora non possiamo che sperare che ce la faccia”. Una dichiarazione che sintetizza come per ora che il mercato voglia vedere il bicchiere mezzo pieno e abbia salutato l’uscita di scena di Enrico Letta come l’occasione per rompere gli indugi e fare quelle riforme che l’epoca delle “larghe intese” con tutti i suoi pesi e contrappesi aveva ancora più efficacemente bloccato. Il mio timore è che la montagna partorirà il classico topolino, ma mi auguro di essere prontamente smentito dai fatti e vedere finalmente un governo in grado di far ripartire quella crescita senza la quale il paese è condannato ad avere un grande futuro dietro le spalle. E i nostri giovani a dover preparare le valige se vorranno fare esperienza e fortuna.