Imu, torna ad accendersi il braccio di ferro tra Bruxelles e Roma: alla Commissione Ue che oggi nel valutare il Def ha raccomandato all’Italia di reintrodurre una tassa patrimoniale sulla prima casa limitatamente ai contribuenti a reddito elevato, il ministro dell’Economia e Finanze, Pier Carlo Padoan, prova a rispondere che “non è una buona idea” tornare a “cambiare idea su una tassa che è stata da poco cambiata”.
Per la verità Padoan dovrebbe sapere che Bruxelles non ha mai cambiato idea, visto che da anni chiede all’Italia non solo di rispettare, contabilmente, i suoi impegni in quanto a saldi di bilancio, ma di spostare quanto più possibile la tassazione dalle attività produttive alle rendite.
Cosa, quest’ultima, che i governi di un paese ricco di lobbies, amici degli amici e, sempre di più, anziani e pensionati, come l’Italia, si sono ben guardati dal fare, limitandosi a tirar calci al barattolo spostando sempre più in là l’introduzione di misure alternative (le “clausole di garanzia”) che comporteranno incrementi dell’Iva nei prossimi anni, se non si troverà prima il modo di ridurre la spesa o recuperare gettito fiscale agendo su altre leve come, appunto, l’imposta patrimoniale.
Per fortuna o purtroppo, a seconda che siate o meno proprietari di casa ad “elevato reddito”, Matteo Renzi, che pure era partito dall’idea di varare la riforma del catasto, si è da mesi messo di traverso, temendo un inasprimento fiscale che alcune fasce di contribuenti/elettori sopporterebbero mal volentieri o per nulla. Di chi si tratta non è difficile capirlo, o forse no perché il nocciolo della questione è che in Italia esiste una sperequazione della ricchezza evidente se è vero, come sottolinea l’Istat, che a fine 2014, ultimo dato disponibile, il 20% più ricco delle famiglie italiane percepiva il 39,3% dei redditi totali, mentre il 20% più povero arrivava appena al 6,7%.
Segno che il dettato dell’art. 53, secondo comma, della Costituzione italiane secondo cui “il sistema tributario è informato a criteri di progressività” non è stato finora rispettato. Far pagare aliquote fiscali più elevate a chi gode di redditi più elevati appare dunque ineccepibile, ma ha senso il suggerimento di Bruxelles? Qui le cose si complicano perché molto dipende da come nel concreto questo “suggerimento” verrebbe applicato. Una eventuale rivalutazione generalizzata delle rendite catastali comporterebbe un incremento del debito d’imposta che non varierebbe anche se i prezzi delle case tornassero a scendere.
In questa ipotesi le famiglie proprietarie di immobili a reddito più modesto potrebbero essere indotte a vendere casa, mentre quelle a reddito più elevato non avrebbero particolari problemi a conservarne la proprietà. Che dopo 40 anni di rendite catastali immutate si debba cambiare è dunque condizione necessaria ma non sufficiente, specie se si volesse ottenere una invarianza di gettito e non una “stangata” come lasciavano intuire simulazioni circolate negli ultimi anni all’apparire dell’ipotesi di riforma.
Una riforma che si basa sull’utilizzo di un Isee (Indicatore della situazione economica equivalente) che non è chiaro se giudicherebbe benestanti solo le famiglie della “classe dirigente” (1,8 milioni di famiglie, ossia 4,6 milioni di persone) o, come peraltro già fa l’Istat nel suo rapporto annuale, anche le “famiglie di impiegati” (4,6 milioni di persone, 12,2 milioni di persone) e quelle delle “pensioni d’argento” (2,4 milioni, 5,2 milioni di persone). Nel secondo caso si avrebbero 22 milioni di benestanti residenti, ossia oltre un italiano su tre.
Certo, come già ebbe modo di far osservare la Banca d’Italia, finché rimarranno cospicue le differenze tra fra la base imponibile basata sulle rendite catastali e gli effettivi valori di mercato degli immobili, l’opacità di una qualsiasi tassazione patrimoniale è evidente, come pure è evidente come evidente è l’aggravio fiscale per famiglie e imprese di una reintroduzione “tout court” dell’imposta immobiliare.
Ben venga dunque la riforma catastale, purché possa essere una misura per rendere più progressivo e dunque più socialmente equo il fisco italiano, con l’ovvia postilla che non solo si debba garantire una invarianza di gettito complessivo, ma che tale risultato venga perseguito anche attraverso una ripresa di quel processo di revisione della spesa pubblica a cui la politica italiana ha preferito soprassedere sfruttando i benefici portati dai bassi tassi d’interesse.
Benefici che non dureranno all’infinito: nel 2019 scadrà il mandato di Mario Draghi ai vertici della Bce e il suo probabile successore è il tedesco Jens Weidmann. Con l’attuale numero uno di Bundesbank ai vertici di Eurotower, sarà solo questione di tempo prima che i tassi tornino a salire, sempre che Draghi non abbia dovuto lui stesso iniziare ad alzarli prima. A quel punto se l’Italia non avrà fatto i “compiti a casa” saranno dolori, per molti se non per tutti.