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Recessione finita, ma la crescita non si vede

Finalmente anche l’Italia è uscita dalla recessione, ma se la crescita resterà a livelli meramente statistici occorrerà una decina d’anni solo per tornare ai livelli del 2008…
A cura di Luca Spoldi
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Finalmente anche l’Italia è tecnicamente fuori dalla recessione, dopo che nel quarto trimestre dell’anno il Pil italiano è cresciuto (secondo la stima provvisoria fornita dall’Istat) del +0,1%, come da attese, riducendo la caduta su base annua al -0,8% (in linea col consensus), dal -1,9% del terzo trimestre (dato rivisto al ribasso dal -1,8% stimato precedentemente). Non  si può però cantare vittoria, visto che sempre nel 2013 il Pil corretto per gli effetti del calendario appare ancora in calo dell’1,9%, a conferma, come segnala su Twitter l’economista Carlo Alberto Carnevale Maffè che “tecnicamente e sostanzialmente, in queste condizioni il Paese non vedrà alcuna vera ripresa ancora per molti anni a venire”.

Difficile dar torto a Carnevale Maffè, del resto, visto che a fine 2008, prima che si scatenasse appieno la crisi innescata dal collasso della banca d’affari Lehman Brothers, il Prodotto interno lordo italiano era arrivato a valere 1.475 miliardi di euro, mentre a fine 2012 si era calati sotto quota 1.390 miliardi e che nel 2013 sembra essersi fermato a poco più di 1.362 miliardi. Il che significa che l’economia italiana deve recuperare 113 miliardi di euro (ossia crescere di un 8,3% dai livelli attuali) solo per tornare al punto di partenza, già non esaltante. Se la velocità della “crescita” non salirà in modo deciso, ritornando almeno dagli attuali 340 miliardi di euro di Pil creati ogni trimestre ai 357 miliardi visti ancora a metà 2011, quando la crisi sembrava ad alcuni politici “un’invenzione dei giornali”, solo per recuperare i livelli pre-crisi occorreranno oltre 9 anni (ipotizzando che il Pil cresca dello 0,9% annuo che era l’ultima proiezione su cui scommetteva il dimissionario governo Letta).

Il problema è che nessuno ad oggi è in grado di assicurare che nei prossimi nove anni l’economia italiana e mondiale non si trovi a fronteggiare nuove crisi, che potrebbero far slittare ulteriormente il ritorno a livelli pre-crisi dell’economia del Bel Paese. Non solo: come già detto più volte, sebbene i tassi sui titoli di stato stiano calando grazie all’incessante azione delle banche centrali ed in particolare della Bce (che però ora dovrà mostrare la “faccia cattiva” con degli stress test sufficientemente severi da non perdere di autorevolezza nei confronti del mercato, fatto questo cha ha già fatto ipotizzare come almeno 27 istituti europei, tra cui le italiane Mps, Credito Valtellinese e Banca Carige, possano rischiare il fallimento, mancando non meno di 17 miliardi di euro di patrimonio per esser certi di passare i test senza problemi), essi restano ampiamente superiori al tasso di “crescita” del Pil nominale.

Colpa”, se così si può dire, di un’inflazione che non riesce neppure a raggiungere l’1% annuo che dunque sommato a una crescita (prevista) inferiore all’1% reale del Pil porterà, salvo miracoli (o riforme pro-crescita, il che è quasi equivalente) a un tasso di crescita nominale del Prodotto interno lordo italiano inferiore al 2% anche per quest’anno. Ora: a fine gennaio il Rendistato  (rendimento medio  che lo stato italiano paga sui suoi titoli di debito) è calato al 2,83%, ma se si guarda alle diverse scadenze ci si rende conto che per scadenze superiori ai 6 anni resta superiore al 3,2% (arrivando al 4,59% per i titoli di durata superiore ai 20 anni). Come dire che gli interessi sul debito continueranno a correre più rapidamente del Pil ancora per molti mesi o trimestri e che quindi la crescita resta l’obiettivo primario che qualsiasi governo deve porsi per evitare l’unica reale alternativa: quella di un default sovrano che potrebbe avere conseguenze inimmaginabili (chiedere ad Argentina e Grecia per informazioni).

E dunque incrociamo le dita e godiamoci il ritrovato segno positivo della variazione trimestrale del Pil, ma con la consapevolezza che un paese arrivato nello stato in cui si trova ormai l’Italia non può ancora festeggiare lo scampato pericolo. E che se Matteo Renzi vuole dare una speranza di futuro ai giovani (e ai meno giovani)  dovrà lavorare, come ha cercato di lavorare Enrico Letta, su più fronti, dal mercato del lavoro al fisco, dalla gestione del debito pubblico ad interventi mirati per limare ed efficientare la spesa, dalla semplificazione burocratica all’innovazione (tecnologica e culturale) del paese. Sarebbe ordinaria amministrazione di qualsiasi governo che non fosse concentrato a contemplare il proprio ombelico nei salotti televisivi, veramente, ma dopo continue docce fredde anche solo questo veder rispettato questo requisito minimo sembra un miracolo: Renzi è avvisato.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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