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Rcs MediaGroup festeggia in borsa, durerà?

Il titolo Rcs guadagna quasi il 6% in borsa. Non si è trovato il modo di non perdere più soldi, semplicemente l’aumento di capitale ha ottenuto più sottoscrizioni del previsto. Ora chi vincerà tra Della Valle e gli Agnelli?
A cura di Luca Spoldi
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La grande paura per il momento è passata e Rcs MediaGroup a Piazza Affari festeggia (+5,77% a fine giornata) un esito più che positivo (almeno rispetto ai timori che avevano preceduto l’operazione) dell’aumento di capitale da 420 milioni di euro, conclusosi con un 85% di adesione (per la precisione l’84,95% dei 400 milioni di euro di titoli ordinari e il 95,57% dei 20 milioni di euro di azioni di risparmio), per complessivi 359 milioni, che lascia dunque in mano al consorzio di collocamento e garanzia formato dalle banche un 15% di diritti (per complessivi 49,4 milioni), che saranno ora riofferti in borsa a partire da mercoledì 10 luglio prossimo. Alla fine, Fiat ha effettivamente esercitato diritti per salire sino al 20,10% (dal precedente 10,5%), Diego Della Valle si è limitato a sottoscrivere la propria quota (salita leggermente dall’8,7% all’8,81%), anche se occorrerà vedere ora cosa deciderà di fare visto che lo stesso patron di Tod’s aveva preannunciato di essere pronto a salire sino al 20% rilevando i diritti inoptati.

Degli altri “soci forti” di Via Rizzoli, Mediobanca e Pirelli hanno esercitato i rispettivi diritti portando le proprie partecipazioni al 15,1% e al 5,2% rispettivamente, come hanno fatto Intesa Sanpaolo (che ha leggermente arrotondato al 5,85%), Fondiaria-Sai (5,46%) ed Edison (1,08%), mentre gli eredi di Giuseppe Rotelli hanno lasciato calare la quota di Pandette (dal 13,3% al 4,2%), come pure hanno fatto i Pesenti con Italmobiliare (dal 7,75% al 3,75%) e i Bertazzi con Erfin (dall’1,228% allo 0,778%). Rinunciando all’aumento hanno visto drasticamente ridursi il proprio peso sul capitale anche i Merloni (fino a venerdì soci al 2,1%) e i Benetton (in precedenza al 4,8%), mentre circa un 10% delle opzioni esercitate, pari al 6% del capitale ordinario post-aumento, non sarebbe per il momento riconducibile ad alcun “socio forte”. Se saranno stati piccoli trader coraggiosi (o avventati) o qualche mano “amica” dell’uno (Fiat-Mediobanca) o dell’altro schieramento (Della Valle) si vedrà presto.

La sensazione è che si vada comunque ad una resa dei conti perché nonostante le dichiarazioni di Sergio Marchionne, secondo cui per Fiat la partecipazione in Rcs MediaGroup resta “strategica, altrimenti non avremmo investito tanto”, non si capisce perché un produttore di automobili (così come un produttore di pneumatici, un’assicurazione, una banca d’affari e una banca commerciale, a guardar bene) debbano tenersi stretti un old media che perde soldi e non sa reagire alla una crisi “disruptive” che da tempo interessa il comparto editoriale italiano. A pensare male si fa peccato, ma visto che a volere fortemente l’investimento è stato John Elkann, sembrerebbe che la famiglia Agnelli, perfetta (ma non unica) interprete del “capitalismo familiare” italiano che tanto ha amato conservare il proprio controllo su aziende e potentati vari quanto poco ha amato investire quattrini, abbia voluto scaricare sul 67% degli azionisti Fiat diversi dalla stessa famiglia Agnelli (che controllano il Lingotto col 30,05% più un 3,226% di azioni proprie detenute dalla Fiat stessa) la parte più cospicua dei costi dell’aumento.

Un’operazione costata un’ottantina di milioni di euro, che secondo varie voci circolate in queste settimane, e mai smentite, potrebbe essere il primo passo verso la creazione di un “polo editoriale” che metta sotto al cappello di Exor (la holding di famiglia) Il Corriere della Sera con La Stampa. Il che forse potrebbe persino rispondere a una logica di private equity (comprare asset anche a debito, ristrutturarli, farli crescere e poi rivenderli) ma, chissà perché, ci ricorda tanto altre logiche care in passato al clan Agnelli (che con Carlo Caracciolo, cognato dell’”Avvocato”, cofondatore di L’Espresso-Repubblica, mantenne per anni di fatto un “piedino” anche nel secondo maggior gruppo editoriale italiano), non propriamente all’insegna della creazione di valore per tutti gli azionisti. E Diego Della Valle? A parole era pronto a una crociata (l’ennesima) contro i “salotti buoni”, di fatto deve attendere anche lui di vedere come finirà questa partita per capire se il patto di sindacato sarà effettivamente sciolto e se si tornerà a contare più che pesare le azioni.

Il “modello Mediobanca” è superato da un pezzo e la stessa Piazzetta Cuccia se n’è accorta come vi ho già ricordato, ma questo non significhi che improvvisamente le grandi famiglie capitaliste italiane scoprano le virtù di un capitalismo di stile anglosassone, dove la concorrenza è sacra e le competenze sono la merce più ricercata, assieme ai capitali, ben prima e più che le relazioni personali. Chissà perché questo clima di “sopravvivenza a se stessi” mi pare tanto simile all’aria che si respira oggi nel panorama politico italiano, dove i responsabili del malgoverno (o meglio del non governo, almeno degli ultimi 15 anni) che ha finito con l’azzerare ogni capacità di crescita del paese si ritrovano uniti in un governo “del fare” (poco poco, piano piano) di democristiana memoria, abile ad allungarsi ogni giorno la vita senza veramente prendere decisioni impopolari che una seria riforma di settori come la giustizia, la pubblica amministrazione, il credito o l’istruzione richiederebbero.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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