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Opinioni

Quello che serve all’Italia ora

Quello che serve ora all’Italia è rassicurare partner europei e investitori internazionali della determinazione a tener fede ai patti e a trovare il modo di far ripartire la crescita. Quello che non serve è tornare al passato…
A cura di Luca Spoldi
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Camera - fiducia dl costi politica

Il ritorno dell’ex premier Silvio Berlusconi sulla scena politica con la minaccia a chiare lettere di staccare anzitempo la spina al governo Monti pur di andare a votare entro febbraio, così da evitare le possibili condanne nei processi a suo carico pesano anche oggi sui mercati e di conseguenza sulle tasche degli italiani tutti, indipendentemente dal loro credo politico. Non tanto e non solo perché a metà giornata gli indici di borsa restano in calo di un punto percentuale, mentre tutte le principali piazze europee restano leggermente positive, nonostante i pessimi dati macroeconomici inglesi (produzione manifatturiera calata in ottobre dell’1,3%, contro attesa per -0,2%) e tedeschi (produzione industriale calata a ottobre del 2,6%, contro attese per -0,5%) e nonostante la revisione al ribasso delle stime della Bundesbank circa l’andamento del Pil tedesco quest’anno e il prossimo (atteso ora in crescita dello 0,4% nel 2013 rispetto al +1,6% pronosticato in precedenza, mentre quest’anno non dovrebbe andare oltre il +0,7% dal +1% finora messo in preventivo), quanto perché ancora una volta pagano pegno i titoli di stato italiani.

Il Btp decennale guida, ad esempio, vede il rendimento oscillare da stamane tra il 4,58% e il 4,60% (ieri aveva chiuso sul 4,575%), anche se dopo qualche incertezza lo spread contro Bund flette debolmente al 3,27% (contro il 3,28% di ieri sera). Considerando che a fine novembre la vita media del debito pubblico italiano era pari a 6,49 anni  (contro i 7 anni di fine novembre 2011) e che di qui a fine novembre 2013 verrano a scadere circa 243,7 miliardi di euro di titoli  (oltre 20 miliardi di euro di titoli da rinnovare ogni mese, molti ma decisamente meno dei 320,4 miliardi che erano in scadenza nei 12 mesi successivi a fine novembre 2011), di cui circa un terzo in mano a investitori esteri, si può abbastanza facilmente comprendere come mai l’infelice “uscita” del proprietario del Pdl abbia preoccupato gli investitori razionali ed offerto un’agevole occasione di trading per gli operatori più veloci ad alleggerire le posizioni, magari in attesa di una ricopertura a fine anno o inizio 2013 se il quadro dovesse nuovamente migliorare.

A scanso di equivoci, non è che le nostre vite debbano essere “ostaggio” dei mercati, certamente, né che l’operato del governo Monti sia stato esente da critiche, come sa bene chi ha la bontà di seguirmi da mesi su queste pagine. Ma domandiamoci: cosa può portare al paese il “ritorno in pista” del proprietario del Pdl? Nulla di buono se non, forse, come deterrente agli occhi dei nostri partner europei che forse potrebbero per questo capire meglio quando dovrebbero avrebbero dovuto sforzarsi di agevolare il compito di Monti, ad esempio accettando per tempo condizioni meno “capestro” per l’Italia e accelerando il processo di integrazione anche politica e non solo monetaria dell’Unione europea (passo necessario se si vuole che i cittadini dei 17 stati membri, e in prospettiva di tutta le Ue-27, tocchino per mano i vantaggi dell’appartenere alla più grande area economica mondiale e non cadano nell’illusione che un’uscita dalla stessa possa comportare un qualche fantomatico beneficio per chi la attuasse).

Ricordiamo: fu il governo Berlusconi a impegnarsi (unico in tutta Europa, tragico errore come si è visto) per raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio già nel 2013, anche se il ministro dell’Economia e finanze, Vittorio Grilli, ha già fatto capire che l’Italia conta di ottenere uno slittamento dell’appuntamento avendo “fatto i compiti” come e più di altri, per una volta, cosa che lo stesso Fondo monetario internazionale ha effettivamente riconosciuto (ma che è “merito”, se di merito si vuol parlare, del governo in carica peraltro sostenuto sino all’altro ieri dallo stesso Silvio Berlusconi, sia pure a fronte di dichiarazioni contraddittorie a ciclo alterno, una volta a favore una volta contro l’operato del governo). Monti si è dunque mosso, come ha saputo, voluto o potuto, nell’ambito di linee guida già tracciate sia sul piano interno sia a livello internazionale dal suo predecessore che, per usare un’espressione apparsa oggi sul quotidiano finanziario britannico Financial Times, “last year  took Italy to the brink of collapse” e che “would make no scruples about doing it again” (ossia che “lo scorso anno ha portato l’Italia sull’orlo del collasso” e “non si farebbe scrupolo di rifarlo nuovamente”).

Che l’ex premier cerchi ora, dopo quattro anni di governo (e undici mesi di appoggio all’operato del governo Monti) su cinque anni di legislatura di fare campagna elettorale vestendo i panni dell’oppositore ad un sistema che lui stesso ha guidato e plasmato in base ai propri interessi è non solo irreale ma anche molto pericoloso agli occhi di qualsiasi investitore dotato di buon senso. Ma, come detto, non sia mai che mettiamo i mercati e quei “vili speculatori” a comandare le nostre vite, certamente: chiediamoci allora che alternative avremmo avuto al governo Monti, visto il discredito di cui godeva (e godrebbe) il suo predecessore. Nessuna: non l’ipotesi Argentina, che a distanza di dieci anni dal default del 2002 non si è ancora del tutto ripresa e già rischia un clamoroso “bis”, senza essere mai riuscita in tutto questo tempo a convincere gli investitori mondiali di essersi pentita dell’aver mancato alla parola data (e aver così dovuto giocoforza rinunciare a investimenti per decine o forse anche centinaia di miliardi di dollari da parte degli stessi investitori internazionali). Ma neppure l’Islanda, che piace tanto ad alcuni personaggi la cui ignoranza delle più elementari regole dell’economia dovrebbe imbarazzare qualsiasi persona dotata di buon senso, visto i costi finiti sulle spalle dei contribuenti di quel paese dopo il dissesto del sistema finanziari islandese del 2008.

No: vie d’uscita comode non ne esistono, “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scordiamoci il passato” funziona solo nelle canzonette non nel mondo reale. Serve trovare il modo di rassicurare tutti circa la volontà degli italiani di tener fede agli impegni, semmai rinegoziando per quanto possibile gli impegni stessi in modo da delineare un percorso fattibile e non un “libro dei sogni” che finirebbe con lo strozzare ancor più l’economia italiana. Serve ridare fiducia agli italiani stessi, perché in caso contrario continueranno a disinvestire dall’unica asset class in grado di offrire un vero incremento di valore (se vi sono prospettive future), l’istruzione per i propri figli oltre che, più banalmente, a tagliare i consumi  e ridurre i risparmi in presenza di un calo del reddito disponibile che da temporaneo rischia di diventare permanente. Non sarà facile, ci vorrà l’impegno di tutti, ma i talenti e i buoni progetti da cui ripartire non mancano: come già detto ieri l’unica cosa che non serve è tornare a guardare al passato e ad esso sacrificare il futuro di questo paese.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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